Asia Centrale, Cina e coronavirus: quali prospettive? (di Pierluigi Franco)

La preoccupazione globale per le inevitabili conseguenze economiche e geopolitiche derivanti dal coronavirus non risparmia i Paesi dell’Asia centrale. Anzi, vista la loro posizione strategica per colossi come Russia e Cina, ma anche per la stessa Europa, li pone in primo piano per quanto riguarda il futuro degli assetti economici e degli equilibri politici internazionali. 

I segnali di difficoltà immediata sono evidenti, con il brusco calo del prezzo del petrolio che è tornato nei soli primi tre mesi del 2020 ai livelli del 2003 (da 65 dollari al barile di gennaio ai 21 dollari di marzo). Un prezzo che gli analisti prevedono ancora in possibile calo a causa del crollo della domanda conseguente alla pandemia da COVID-19. Questo per i Paesi dell’Asia centrale, le cui economie dipendono in gran parte dall’export di idrocarburi, equivale a una inevitabile recessione. E, a fronte di un calo del mercato globale, non possono bastare soluzioni interne che le autorità governative sono pronte a mettere in atto con manovre monetarie, memori della crisi del 2014 che dal Kazakistan dilagò in tutti gli altri Stati con una forte svalutazione. E’ evidente che stavolta il quadro e i presupposti non sono gli stessi.

Anche in questa occasione il Kazakistan potrebbe essere il Paese più esposto. Ma la questione dei prezzi petroliferi tocca profondamente anche Turkmenistan e Azerbaigian. Gli osservatori ritengono che, per bilanciare il proprio budget, l’Azerbaigian dovrebbe vendere il suo petrolio ad almeno 53 dollari al barile tenendo presente che il 90% dell’export del Paese deriva proprio dalla vendita di gas e petrolio.

Ma il coronavirus pesa anche sul gas, dopo che il governo cinese ha chiesto a Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan di tagliare le forniture. Il colosso energetico cinese PetroChina, costretto dal crollo delle domanda interna e da quello del prezzo del petrolio, ha comunicato una riduzione del 25% del flusso di gas da Kazakistan e Turkmenistan e del 15% dall’Uzbekistan.

Al prezzo del petrolio e al calo delle forniture energetiche si aggiunge anche un altro sensibile calo: le rimesse di denaro inviate in patria dai lavoratori all’estero. Si tratta di un fenomeno molto importante per le economie centrasiatiche, con un peso consistente sui Pil dei rispettivi Paesi. Ad esempio, Tagikistan e Kirghizistan sono tra gli Stati più dipendenti al mondo da queste rimesse, rispettivamente con volumi che sono arrivati a toccare nel 2014 il 40% e il 30% dei Pil nazionali. Di minore impatto, ma non insignificanti, le rimesse in Uzbekistan che si erano attestate al 16%. La maggior parte dei lavoratori emigrati da questi Paesi è occupata in Russia e, in parte minore, in Kazakistan, così la successiva svalutazione del rublo e del tenge avevano portato a un calo di circa il 20% del valore delle rimesse. I segnali di ripresa degli ultimi due anni, con una crescita progressiva delle rimesse segnalata dalla Banca mondiale, potrebbero ora essere vanificati dalle conseguenze del coronavirus sull’occupazione e sul sistema produttivo in generale.

Anche se è ancora presto per capire come evolverà il mondo nei prossimi mesi e nei prossimi anni, è facile comprendere che molti equilibri cambieranno. E in questa ottica l’Asia centrale deve prepararsi a svolgere un ruolo di primo piano.

Già nel febbraio scorso, quando il coronavirus sembrava essere una cosa abbastanza relegata alla Cina, gli Usa di Donald Trump avevano tentato un forte ingresso nell’area ex sovietica con l’intento di dare scacco alla Russia e, soprattutto, alla Cina che ha bisogno dei Paesi centrasiatici per sviluppare il progetto di Nuova Via della Seta che tanto preoccupa Washington. Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, era andato in tutta fretta in missione nelle Repubbliche dell’Asia centrale per offrire aiuti economici e protezione statunitense, approfittando del momento di grande difficoltà della Cina bloccata dal virus. Nel giro di poco, però, le cose sono cambiate e, mentre la Cina si appresta ad uscire dall’emergenza, il mondo (compresi gli Stati Uniti) sta facendo i conti con la pandemia. 

Nel futuro scenario dell’Asia centrale, dunque, si collocano tre attori fondamentali: Russia, Cina e Usa. Ma anche l’Europa, indebolita dalla crisi coronavirus, potrebbe avere l’esigenza di cercare il suo spazio nel corridoio verso Oriente. E’ facile immaginare che, alla fine dell’emergenza globale, far ripartire le economie diventerà prioritario. 

Visti i presupposti, gli Stati Uniti potrebbero ripartire alla carica offrendo ai Paesi centrasiatici quegli aiuti già anticipati da Pompeo nei mesi scorsi per “far progredire la prosperità” e spingendo sulle politiche anti-cinesi facendo leva, soprattutto in Kazakistan, sulle persecuzioni delle minoranze islamiche uiguri e kazake che vivono in Cina.  Risorse energetiche e scambi commerciali fanno gola a Washington, ma soprattutto fa gola il poter mettere solidamente piede in un crocevia strategico per il controllo di ogni angolo dell’Asia, dall’Afghanistan all’Iran, oltre a creare difficoltà a Mosca e a Pechino.

Difficile pensare che la Russia di Vladimir Putin stia a guardare. Anche dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la perdita di quei territori conquistati dagli zar in trecento anni di storia, la Russia ha infatti mantenuto solidi rapporti e stipulato numerosi contratti con le vicine Repubbliche ex sovietiche. D’altra parte, come ha dimostrato la crisi del 2014, l'economia russa è ancora di vitale importanza per le economie dell'Asia centrale, condizionate da un plurisecolare legame con Mosca oltre che dall’andamento del rublo.

Nell’ultimo periodo, però, è stata la Cina ad essere più attiva nella regione. Il punto di forza è ovviamente la Nuova Via della Seta di cui l’Asia centrale costituisce un corridoio inevitabile. Certamente, alla fine dell’emergenza da COVID-19, Pechino non potrà fare a meno di riprendere i suoi progetti di sviluppo di infrastrutture e contratti nell’area che a questo punto diventeranno vitali. E’ pensabile che anche per i Paesi centrasiatici, già indebitati con Pechino, i progetti cinesi costituiscano la soluzione migliore, sia per la vicinanza geografica, sia per la possibilità di stabilire ponti più facili con l’Europa. Magari, per contrastare le mire di Washington, potrebbe anche consolidarsi una collaborazione tra Pechino e Mosca che renderebbe ancor più praticabile il passaggio verso ovest.

Ma anche l’Europa uscirà indebolita dal coronavirus e avrà bisogno di far ripartire l’economia. Anche qui è facile pensare che la situazione di necessità potrebbe far superare ogni diffidenza sul progetto di Nuova Via della Seta e favorire lo sviluppo di contatti verso Oriente. In questo caso, inevitabilmente, i Paesi dell’Asia centrale tornerebbero ad assumere un ruolo chiave anche per il Vecchio continente.




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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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http://www.eu/ita/archivio/Asia-Centrale--Cina-e-coronavirus-quali-prospettive--di-Pierluigi-Franco-772-ITA.asp 2020-04-15 daily 0.5