Distacco transnazionale e contributi previdenziali: il parametro è la retribuzione convenzionale solo in mancanza di convenzione tra gli Stati (di Luca Daffra e Marco Azzoni)

La corretta individuazione della base imponibile da adottare per il calcolo dei contributivi previdenziali dei dipendenti di società ubicate in Italia, che svolgano la propria prestazione lavorativa all'estero per periodi superiori a 183 giorni in un anno, è uno di quegli aspetti che assume grande rilievo nelle valutazioni (anche di carattere economico) che un’azienda si trova necessariamente a dover effettuare quando decide di distaccare un proprio dipendente all'estero.

Recentemente, tale tematica, è tornata prepotentemente alla ribalta delle cronache del diritto alla luce della sentenza della Corte di Cassazione n. 17646 del 6 settembre 2016, la quale – ribaltando un precedente orientamento giurisprudenziale delle Corti di merito e confermando, invece, la tesi dell’Istituto - ha statuito che il comma 8-bis dell’art. 51 del T.U.I.R. «opera esclusivamente a fini fiscali e non incide sulla determinazione della base imponibile a fini contributivi per i lavoratori italiani che lavorano all'estero».

Vale allora la pena - per comprendere la portata di quest’ultimo arresto giurisprudenziale – esaminare, seppure sinteticamente, le fonti normative che disciplinano la materia.

A seguito, a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale – che, con la sentenza n. 369 del 30 dicembre 1985, ha dichiarato costituzionalmente illegittime le norme che non prevedevano una copertura contributiva in Italia per il lavoratore italiano impiegato all'estero in Paesi non legati all'Italia da accordi in tema di sicurezza sociale – il Legislatore si è trovato, pertanto, nella necessità di colmare tale vuoto normativo e lo ha fatto con il d. l. 31 luglio 1987, n. 317, il cui art. 1 dispone, in tali casi, l’obbligo di iscrizione a una serie di forme di previdenza ed assistenza sociale con le modalità in vigore nel territorio nazionale; l’art. 4 dello stesso decreto ha poi previsto che il calcolo dei contributi per i regimi assicurativi in parola dovesse avvenire sulla base di retribuzioni convenzionali fissate di anno in anno con decreto ministeriale.

Come noto, in forza dell’obiettivo dell’equiparazione della nozione di reddito di lavoro dipendente a fini fiscali e previdenziali di cui all'art. 3, comma 19, della legge delega 23 dicembre 1996, n. 662, l’art. 6, comma 1, del d.lgs. 2 settembre 1997, n. 314, ha introdotto nell'art. 12 della legge 30 aprile
1969, n. 153, il principio secondo cui per la determinazione del reddito di lavoro dipendente a fini contributivi debbano applicarsi le disposizioni di cui all'art. 48 [ora art. 51] del T.U.I.R., ai sensi del quale il reddito di lavoro dipendente a fini fiscali è costituito da tutte le somme effettivamente percepite dal prestatore in dipendenza del rapporto di lavoro durante il periodo d’imposta.

Il comma 8-bis di tale norma – introdotto dall'art. 36, comma 1, della legge 21 novembre 2000, n.
342 – prevede, tuttavia, in deroga al citato principio, che, il reddito di lavoro dipendente prestato all’estero da dipendenti che ivi soggiornino per più di 183 giorni nell’arco di 12 mesi è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali fissate dai decreti ministeriali di cui all’art. 4 del d. l. 31 luglio 1987, n. 317, i quali, al fine della quantificazione delle basi imponibili, prevedono tabelle compilate con riferimento ai contratti collettivi nazionali di categoria raggruppati per settori omogenei e che possono, dunque, dar luogo a una contribuzione di importo inferiore a quello risultante dall’applicazione del principio di onnicomprensività della retribuzione. La generale applicazione di quest’ultimo principio, per il calcolo dell’imponibile a fini previdenziali, era pacifico
 
prima dell’introduzione del menzionato comma 8-bis dell’art. 51 T.U.I.R.: il fatto che il combinato disposto degli artt. 1 e 4 del d. l. n. 317/1987 limitasse al caso di mancanza di accordo in materia previdenziale con lo Stato estero extracomunitario di svolgimento della prestazione l’obbligo di riferimento alla retribuzione convenzionale comportava che, nel caso di distacco in Paese comunitario o in altro Stato in cui fosse consentito, in forza di specifico accordo, il versamento dei contributi in Italia, gli stessi erano commisurati all’effettiva retribuzione percepita per il lavoro prestato all’estero.

Il tenore generale della formulazione del comma 8-bis dell’art. 51 – che rinvia alla nozione di retribuzione convenzionale senza menzionare l’ipotesi della mancanza di accordo bilaterale con il Paese estero – ha apparentemente messo in discussione questo principio. Invero, il Ministero del Lavoro (con nota del 19 gennaio 2001) e l’INPS (con circolare del 10 aprile 2001, n. 86) avevano, sin da subito, fornito un’interpretazione secondo cui la disposizione contenuta nel comma 8-bis non si dovesse applicare ai  fini degli  adempimenti  previdenziali per i lavoratori occupati in Paesi convenzionati con l’Italia, ma esplicasse i suoi effetti con esclusivo riferimento agli adempimenti fiscali. Di diverso avviso, tuttavia, si erano mostrati il Tribunale di Pinerolo (con la sentenza n. 392 del 27 aprile 2009) e la Corte d’Appello di Torino (con la sentenza n. 393 del 28 giugno 2010), secondo cui il comma 8-bis si sarebbe dovuto applicare in ogni caso anche a fini contributivi, indipendentemente dal fatto che la prestazione fosse svolta in un Paese extracomunitario ove fosse in vigore una convenzione di sicurezza sociale con l’Italia o in un Paese comunitario (si ricorda che in ambito UE l’art. 12 del Reg. n. 883/2004 prevede l’assoggettamento del lavoratore distaccato in altro Stato membro alla legge previdenziale del Paese di provenienza, in deroga al principio generale di cui all’art. 11, che dispone l’applicazione della legge previdenziale del luogo di svolgimento della prestazione). Le Corti piemontesi fondavano le loro conclusioni sulla base dell’equiparazione del reddito a fini contributivi e fiscali introdotto con la menzionata legge n. 662/1992.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17646/2016 summenzionata, ha cassato proprio la citata pronuncia della Corte d’Appello di Torino, statuendo che il comma 8-bis dell’art. 51 T.U.I.R. si applica solamente a fini fiscali. Diversamente, argomenta la Corte, si determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratori assoggettati al regime previdenziale italiano che soggiornano all’estero per periodi superiori o inferiori a 183 giorni, discrimine che ha una ragion d’essere esclusivamente in campo fiscale. La soluzione diversa comporterebbe altresì, a detta della Corte, un’ingiustificata compressione delle entrate pubbliche, anche a detrimento della posizione previdenziale del lavoratore. Da ultimo, è opportuno considerare la ratio del d. l. 317/1987, che, introducendo la nozione di retribuzione convenzionale, ha inteso tutelare la posizione dei lavoratori impiegati in Paesi extracomunitari privi di accordi di sicurezza sociale che consentano di derogare al principio di territorialità. Quando, come nella fattispecie esaminata dalla Corte (il caso di specie era quello di un lavoratore distaccato negli Stati Uniti d’America), vi sia un accordo bilaterale che consenta il mantenimento della copertura assicurativa in Italia, sono le retribuzioni effettive corrisposte al lavoratore all’estero a dover essere prese quale parametro di riferimento per il versamento dei contributi.

Il comma 8-bis dell’art. 51 T.U.I.R. era già stato oggetto di pronunce giurisprudenziali che avevano stabilito la sua inapplicabilità ai fini dell’individuazione della base imponibile previdenziale (cfr. Trib. Milano, sez. lav., sent. 7 gennaio 2016, n. 6750, in Lav. prev. oggi, 2016, 441 ss.; in senso analogo Trib. Milano, sez. lav., sent. 15 giugno 2016, n. 1772). Tuttavia, in questi ultimi casi l’inapplicabilità della norma era dovuta al fatto che il lavoratore, in forza di apposite convenzioni,
 
risultava fiscalmente residente nei Paesi del distacco ove, quindi, erano soggette a imposizione tutte le retribuzioni effettivamente percepite. Nessuna ragione, dunque, vi sarebbe stata per applicare il comma 8-bis a fini previdenziali quando lo stesso non avrebbe trovato applicazione nemmeno a fini fiscali. Diversamente – in questi casi - consentire che l’imposizione fiscale poggiasse sul reddito effettivo e quella previdenziale sul reddito convenzionale sarebbe risultato in contrasto proprio con il principio di equiparazione delle basi imponibili.

In ragione della peculiarità della fattispecie esaminata e delle argomentazioni sviluppate, quindi, la pronuncia in commento appare di importante rilievo nel conferire un preciso orientamento dal quale non sarà agevole discostarsi.

(Luca Daffra e Marco Azzoni, avvocati, sono partner dello Studio Brugnatelli Ichino con uffici in Milano e Roma. Lo studio, che inizia con il numero di oggi la collaborazione con EBD è specializzato in diritto del lavoro e diritto bancario).




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