Forum Economico Eurasiatico di Verona 2019: il riassunto di Paolo Viana

Ci si aggrappa ai "legami concreti". Li chiama così Emma Marcegaglia, ed elenca uno per uno gli impianti petroliferi che Eni gestisce con le società russe. Ma il vento della globalizzazione è cambiato e, come ha spiegato Romano Prodi al XII Forum Economico Eurasiatico di Verona, «oggi la politica non manda avanti l’economia; la frena». Che poi c’è politica e politica.
Il parterre veronese del forum, infatti, è antiamericano se parliamo di petrolio, ma non antisovranista, perché il Russiagate, precisano gli organizzatori, è solo una «narrazione inquinata dei media che demonizzano Putin».
Il Professore, in ogni caso, vince facile quando rassicura gli imprenditori che «sta maturando nei singoli Paesi l’idea di non poter andare avanti con queste chiusure economiche», anche se poi si trova ad ammettere che «da qualche anno camminiamo verso la frammentazione dei mercati mondiali, mentre si affermano potenze regionali».
In sala, siedono un migliaio di imprese euroasiatiche e italiane, riunite sotto l’egida di Igor Sechin, tycoon del petrolio russo. Si parla di crisi, di ambiente, ma soprattutto di costi e delle prospettive di sviluppo che potrebbe dischiudere la nuova via della seta. La Cina è il convitato di pietra.
Lo si coglie non appena si ragiona di domanda energetica e dedollarizzazione delle riserve. Già, perché a Verona si parla (male) dell’America di Donald Trump, anche se «con qualsiasi risultato alle prossime elezioni americane – precisa Antonio Fallico, presidente di Banca Intesa Russia – lo scontro avviato dall’Amministrazione Usa rischia di andare avanti, cambiando forma ma non sostanza».
E allora va avanti anche il dialogo tra Mosca e Bruxelles: il forum replicherà a Parigi e Francoforte, nella consapevolezza che i Paesi dell’Unione Economica Eurasiatica (Ueea) hanno registrato una crescita dell’interscambio con l’Italia pari al 23,9% nel biennio. Uno dei registi del rapporto è Sechin. Non è una colomba e guida la Rosneft, la maggiore compagnia petrolifera pubblica russa. Ieri mattina ha non casualmente ricordato che il suo Paese «è il più grande e affidabile fornitore dell’Europa nel campo delle riserve energetiche, a prezzi più vantaggiosi di quelli del Medioriente».
Il parterre veronese del forum, infatti, è antiamericano se parliamo di petrolio, ma non antisovranista, perché il Russiagate, precisano gli organizzatori, è solo una «narrazione inquinata dei media che demonizzano Putin».
Il Professore, in ogni caso, vince facile quando rassicura gli imprenditori che «sta maturando nei singoli Paesi l’idea di non poter andare avanti con queste chiusure economiche», anche se poi si trova ad ammettere che «da qualche anno camminiamo verso la frammentazione dei mercati mondiali, mentre si affermano potenze regionali».
In sala, siedono un migliaio di imprese euroasiatiche e italiane, riunite sotto l’egida di Igor Sechin, tycoon del petrolio russo. Si parla di crisi, di ambiente, ma soprattutto di costi e delle prospettive di sviluppo che potrebbe dischiudere la nuova via della seta. La Cina è il convitato di pietra.
Lo si coglie non appena si ragiona di domanda energetica e dedollarizzazione delle riserve. Già, perché a Verona si parla (male) dell’America di Donald Trump, anche se «con qualsiasi risultato alle prossime elezioni americane – precisa Antonio Fallico, presidente di Banca Intesa Russia – lo scontro avviato dall’Amministrazione Usa rischia di andare avanti, cambiando forma ma non sostanza».
E allora va avanti anche il dialogo tra Mosca e Bruxelles: il forum replicherà a Parigi e Francoforte, nella consapevolezza che i Paesi dell’Unione Economica Eurasiatica (Ueea) hanno registrato una crescita dell’interscambio con l’Italia pari al 23,9% nel biennio. Uno dei registi del rapporto è Sechin. Non è una colomba e guida la Rosneft, la maggiore compagnia petrolifera pubblica russa. Ieri mattina ha non casualmente ricordato che il suo Paese «è il più grande e affidabile fornitore dell’Europa nel campo delle riserve energetiche, a prezzi più vantaggiosi di quelli del Medioriente».
Per lui le rinnovabili sono una bubbola. «Non siamo pronti ad avvolgere il globo con pannelli solari. Le energie verdi possono contribuire solo come fonti di riserva» ha detto. Se la Marcegaglia mette le mani avanti – «si parla spesso di riduzione di CO2 ma dobbiamo anche dare accesso all'energia a 800 milioni di persone» ha dichiarato il presidente dell'Eni, precisando di investire «seriamente in rinnovabili ed economia circolare mantenendo allo stesso tempo una certa resilienza economica» -, Sechin le considera un nemico.
«L’industria delle energie rinnovabili – ha sostenuto –, insieme allo sviluppo della produzione dello shale oil e alla pressione esercitata dagli Stati Uniti sul mercato petrolifero, rappresenta un ulteriore fattore d’instabilità per il settore energetico globale: richiede ancora sovvenzioni e non può sostenere la stabilità degli approvvigionamenti». Secondo il ceo di Rosneft, la domanda di oil&gas crescerà ancora. «Ci aspettiamo un incremento del 10% entro il 2030 e dovranno essere messi in funzione impianti per 30 milioni di barili al giorno. La Cina intende raddoppiare il consumo». Nell’area Asia-Pacifico «l’aumento del tenore di vita comporterà un’impennata della motorizzazione. L’India diventerà il leader nei consumi».
Peccato che ci sia, appunto, lo shale oil americano, «sostenuto con strumenti politici, espellendo gli altri giocatori dalla partita». Sechin accusa gli Usa di «espandere la propria influenza sull’Europa costringendola ad applicare le sanzioni: ormai c’è un solo "regolatore" del mercato e sono gli americani» che dall’introduzione delle sanzioni, tenendo sotto scacco un terzo delle riserve e un quinto della produzione, hanno aumentato di 2,5 volte l’export di idrocarburi in Ue. L’"amico" russo ha una sola arma per resistere ed è la moneta. In attesa che si dispieghi l’offensiva della dedollarizzazione delle riserve, magari concertata coi cinesi («lo yuan potrebbe essere una valuta di riserva in futuro»), Rosneft annuncia che ridenominerà in euro tutti i contratti di esportazione.
«L’industria delle energie rinnovabili – ha sostenuto –, insieme allo sviluppo della produzione dello shale oil e alla pressione esercitata dagli Stati Uniti sul mercato petrolifero, rappresenta un ulteriore fattore d’instabilità per il settore energetico globale: richiede ancora sovvenzioni e non può sostenere la stabilità degli approvvigionamenti». Secondo il ceo di Rosneft, la domanda di oil&gas crescerà ancora. «Ci aspettiamo un incremento del 10% entro il 2030 e dovranno essere messi in funzione impianti per 30 milioni di barili al giorno. La Cina intende raddoppiare il consumo». Nell’area Asia-Pacifico «l’aumento del tenore di vita comporterà un’impennata della motorizzazione. L’India diventerà il leader nei consumi».
Peccato che ci sia, appunto, lo shale oil americano, «sostenuto con strumenti politici, espellendo gli altri giocatori dalla partita». Sechin accusa gli Usa di «espandere la propria influenza sull’Europa costringendola ad applicare le sanzioni: ormai c’è un solo "regolatore" del mercato e sono gli americani» che dall’introduzione delle sanzioni, tenendo sotto scacco un terzo delle riserve e un quinto della produzione, hanno aumentato di 2,5 volte l’export di idrocarburi in Ue. L’"amico" russo ha una sola arma per resistere ed è la moneta. In attesa che si dispieghi l’offensiva della dedollarizzazione delle riserve, magari concertata coi cinesi («lo yuan potrebbe essere una valuta di riserva in futuro»), Rosneft annuncia che ridenominerà in euro tutti i contratti di esportazione.
(Tratto da Avvenire 25 ottobre 2019)