Il “Grande Fratello” di Pechino: nuovi sistemi tecnologici per il controllo dell’Asia centrale (di Giannicola Saldutti)

L’influenza dell’estremismo uiguro sulle regioni circostanti, la pericolosa e sempre più incombente radicalizzazione di alcune repubbliche centrasiatiche, gli episodi terroristici sempre più frequenti nell’area (come l’attacco bomba all’ambasciata cinese a Bishkek del 2016) ed in ultimo, ma non ultime, le veementi proteste della società civile kazaka contro il potere crescente dell’establishment di Pechino nella sfera economica del Paese: il progetto cinese della Via della Seta sembra essersi inceppato proprio a metà strada, nelle steppe dell’Asia centrale, dove il potenziale economico risulta essere enorme, ma lo stesso non sembra essere accompagnato da un’adeguata stabilità, condizione assolutamente necessaria per la messa in opera delle infrastrutture necessarie alla realizzazione della rete commerciale più ambiziosa che la storia ricordi.

L’interesse cinese per lo spazio post-sovietico collocato al centro del globo terrestre non è più una novità: le cancellerie degli “Stan Countries” da anni sono abituati a non guardare più soltanto a Mosca in cerca di nuovi partner strategici. E se la Russia conserva ancora un vantaggio “storico”, validato dalla lingua franca dello spazio eurasiatico nonché dalla sua capillare presenza militare in Asia centrale, la Cina sta attraendo Kazakhstan e Kyrgyzstan sempre più all’interno della propria sfera di influenza grazie agli enormi investimenti e all’elevato potenziale di transito posseduto dai due attori in ottica “Belt and Road Initiative”. L’instabilità politico-sociale dello Xinjiang (regione a maggioranza uiguro-mussulmana, punto di contatto tra la Cina e l’Asia centrale) si sta dimostrando un fattore contagioso all’interno della regione: ciò preoccupa non poco Pechino, la quale sta adottando delle contromisure che sembrano voler aprire nuovi scenari nel mondo della sicurezza globale, del controterrorismo e, soprattutto, nella gestione delle informazioni private dei comuni cittadini. 

Il nuovo governatore dello Xinjiang, Chen Quanguo (precedentemente a capo del Tibet, dunque abituato a gestire scenari a dir poco recalcitranti) ha già presentato, sia a livello operativo che teorico, le linee guide della cosiddetta “Renmin Zhanzheng”, ossia “guerra del popolo contro il terrorismo”, la quale si avvale di un principio bottom-up: controllo capillare del territorio con particolare attenzione nei confronti dei “combattenti di ritorno” rientrati in Cina dopo lunghi esili in India unito ad una mobilitazione della società civile attiva, coagulatasi intorno al “Bing Tuan”, ossia il Corpo del Popolo dello Xinjiang, gruppo paramilitare preposto allo sviluppo della regione. La tecnologia, in questo processo, svolge un ruolo di primo piano: su qualsiasi mezzo di trasporto dello Xinjiang è stato installato il sistema di posizionamento satellitare “BeiDou”, mentre l’acquisto ed il possesso di qualsiasi coltello o arma da taglio è stato sottoposto ad intestazione personale con relativo codice di identificazione dell’utensile.

Ma le innovazioni principali riguardano ciò che la Cina sta esportando nei mercati esteri: sistemi di telecamere capaci di riconoscimento facciale e con avanzate capacità di analisi dell’ambiente circostante. A porre l’attenzione su questo tema è stata un’inchiesta del New York Times, nella quale è stato dimostrato come questo tipo di sistema di produzione cinese sia già operativo in Ecuador in qualità di strumento utile alla polizia di Quito per avere dati e riscontri in tempo reale per quanto concerne la sicurezza stradale. Nel marzo scorso il Primo Ministro kirghizo Abylgaziev ha firmato un accordo di cooperazione tra Bishkek e la CEIEC (China National Electronics Import & Export), azienda del Celeste Impero con sede a Shangai, leader in sistemi di controllo stradale. Ad onor del vero, il primo contratto di fornitura non è stato stipulato con la CEIEC, bensì nel 2018 con la Vega Instruments Ltd, compagnia russa che ha installato diverse telecamere a Bishkek, con lo scopo di “ridurre gli incidenti stradali”. La nota istituzionale tiene a specificare che le telecamere cinesi che verranno installate in Kyrgyzstan “saranno dotate di riconoscimento facciale. La compagnia cinese sarà responsabile della consegna, dell’installazione, della messa a punto della centrale di monitoraggio e della consulenza in fase di installazione”. Vi è specificato, inoltre, che nessuna porzione di patrimonio statale è stata devoluta all’acquisto della sofisticata strumentazione. La domanda, dunque, sorge spontanea: chi paga? E perché?  

La tecnologia di riconoscimento facciale sembra essere già stata ampiamente utilizzata nello Xinjiang, dove i sistemi targati CEIEC e Huawei sembrano essere riusciti addirittura a riconoscere e selezionare i soggetti monitorati in base ad età ed etnia di appartenenza. Non è difficile ipotizzare che la Cina si sia fatta carico di installare questa nuova tecnologia nei Paesi centroasiatici a proprie spese, con la possibilità implicita, per i servizi di sicurezza di Pechino, di attingere ad una mole considerevole di informazioni per completare il quadro ed evitare che l’estremismo politico-confessionale della minoranza uigura possa nuovamente colpire, facendo salire anche la temperatura nei Paesi vicini, la cui stabilità sembra essere divenuta interesse di primaria importanza. Sempre secondo il New York Times, ben 18 Paesi, ad oggi, fanno uso di sistemi di monitoraggio Made in China. Tra questi, anche l’Uzbekistan, il Pakistan ed il Kenya. Il sospetto più che fondato sta nel fatto che Pechino starebbe letteralmente “comprando” le informazioni di questi Paesi tramite la vendita, o meglio, la svendita agli stessi di sofisticate tecnologie ad un prezzo irrisorio.

Proprio in Uzbekistan i fatti sembrano essere accaduti in maniera analoga: il Presidente Mirziyoyev ha annunciato che la copertura dei sistemi di sorveglianza attivi a Tashkent copriranno tutto il Paese entro il 2023. Ma mentre, nel caso del Kyrgyzstan, la Vega Instruments Ltd è risultata vincitrice di un appalto, nessuna informazione riguardo all'accordo siglato tra il governo uzbeko e Huawei per quanto concerne il progetto “Bezopasnyj Gorod”, ovvero “città sicura”, nel quale gli investitori cinesi sembrano aver già messo sul piatto circa 300 milioni di dollari allo scopo apparente di rendere più sicure le strade uzbeke, a forte rischio di radicalizzazione. Il “Grande Fratello” cinese sembra aver messo gli occhi sull'Asia centrale e lo scopo sembra, come è lecito aspettarsi da Pechino, dei più pragmatici: schedare capillarmente il mondo mussulmano delle steppe centroasiatiche fino ad infondere dubbi di carattere etico, individuare ed estinguere i focolai di radicalizzazione e “ripulire” il tracciato sul quale si poggia la Via della Seta. 




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