Il Kirghizistan di Japarov tra Russia e Cina (e non solo) (di Pierluigi Franco)

È una strana realtà politica quella del Kirghizistan. Dopo  aver cacciato dal potere ben tre presidenti a furor di popolo nel 2005 (Askar Akaiev), nel 2010 (Kurmanbek Bakiev) e nell’ottobre 2020 (Sooronbay Jeenbekov), dall’11 gennaio scorso ha un nuovo capo di Stato, Sadyr Japarov, passato in soli tre mesi dal carcere alla poltrona più alta del Paese. Fino ad ottobre 2020, infatti, Japarov stava scontando una condanna a undici anni perché ritenuto ideatore del rapimento, nel 2013, del governatore della regione di Issyk-Kul, Emilbek Kaptagaev, durante le manifestazioni di protesta per la nazionalizzazione della miniera d'oro di Kumtor  gestita dalla società canadese Centerra Gold, accusata di violazioni ambientali e corruzione. A farlo uscire di cella erano stati i suoi sostenitori. Subito dopo, nel caos seguito alle manifestazioni di piazza, a Japarov era stata annullata la condanna e, bruciando tutte le tappe, era riuscito a prendere la presidenza ad interim indicendo poi le elezioni del 10 gennaio e un nuovo referendum costituzionale per sancire il cambiamento dell’assetto del Kirghizistan da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale.

È così che, in soli tre mesi, Japarov ha conquistato il potere con circa l’80% dei voti, lasciando ben poco al suo avversario diretto, il nazionalista Adakhan Madoumarov che ha ottenuto meno del 7%, e agli altri 15 candidati rimasti con un pugno di consensi. Ma ha anche cambiato il sistema in presidenziale grazie al successo del referendum che in pratica, con oltre l’81% dei consensi, gli ha consegnato pieni poteri.

Proprio dall’esito del referendum sono venuti i timori degli oppositori, convinti che Japarov stia preparando un sistema repressivo e dittatoriale. Ma il neo-presidente, nel suo primo discorso, ha trattato con ironia quello che ha definito “allarmismo ingiustificato”, poiché “non ci sarà la dittatura temuta, ma ci sarà una dittatura della legge e della giustizia”. Parole prese chiaramente in prestito, e forse non a caso, da un famoso discorso tenuto venti anni fa dal presidente russo Vladimir Putin. I prossimi nodi che Japarov dovrà affrontare, infatti, sono proprio quelli legati ai rapporti con la Russia e con la Cina, entrambi vitali per la repubblica ex sovietica, due colossi che danno l’impressione di voler ancora studiare il fenomeno Japarov per molti aspetti ancora non ben definito. 

In ogni caso Putin è stato tra i primi leader a congratularsi con Japarov, sottolineando che la futura cooperazione tra i due Paesi corrisponde “agli interessi fondamentali dei nostri popoli amici”, e augurandosi “che le sue azioni come capo di Stato contribuiscano a rafforzare ulteriormente l’intero arco dei legami russo-kirghisi”. Un atteggiamento ben diverso da quello avuto a ottobre, quando il presidente russo si era tenuto a distanza da quanto stava accadendo a Bishkek e dal nuovo personaggio emergente, tanto che il portavoce di Putin, Dimitri Peskov, aveva annunciato una “pausa” nell’invio di 100 milioni di dollari di assistenza finanziaria promessi al Kirghizistan. Più freddo, invece, l’atteggiamento della confinante Cina che, tramite la sua ambasciata, si è limitata a dire che "rispetterà sempre il percorso di sviluppo" scelto da Bishkek.

Sull’elezione di Japarov, in ogni caso, gravano le critiche dell’Osce, presente alle votazioni kirghise con ben 84 osservatori di 24 Paesi, secondo la quale sono mancate le “condizioni di equità” tra i candidati, pur riconoscendo che le votazioni sono state ben organizzate. Secondo l’Osce, inoltre, Japarov ha avuto "risorse finanziarie e organizzative di gran lunga superiori a quelle di tutti gli altri concorrenti". Una critica che getta una pesante ombra sui finanziamenti, ritenuti ingenti e non chiari, ottenuti da Japarov. Dubbi di legittimità sul voto sono stati espressi anche dall’ambasciata americana a Bishkek che ha invitato le autorità a indagare su “accuse credibili di intimidazione degli elettori” sostenute da un gruppo di osservazione locale sulla base della bassa affluenza alle urne, attestata a circa il 40% degli aventi diritto al voto. Una bassa affluenza che però, secondo i sostenitori di Japarov, sarebbe dovuta alla mancanza di compravendita di voti che invece aveva caratterizzato le elezioni del 4 ottobre 2020 scatenando la rivolta popolare che aveva fatto cadere il vecchio governo.

Il percorso di Japarov non si presenta facile. Il  nuovo presidente dovrà fare i conti con un’economia duramente colpita dal coronavirus. Il Kirghizistan risulta infatti il Paese con la condizione più critica dell’area centrasiatica, stando ai dati della Banca asiatica di sviluppo che parlano di una  contrazione del 10% per il Paese nel 2020, quindi di gran lunga più pesante del calo complessivo del 2,1% per l’Asia Centrale.

Ovviamente Japarov sa bene che la Russia resta l’alleato di riferimento. Lo ha ricordato anche nel suo primo discorso, sottolineando il “percorso comune e fraterno di 70 anni nell’Urss”. D’altra parte il Kirghizistan è stato inglobato nella grande Russia fin dal 1876 ed è rimasto sempre con Mosca diventando stato indipendente soltanto nel 1991, dopo la disgregazione dell’Unione sovietica decretata da Michail Gorbaciov. Oggi il Kirghizistan è Paese membro della Comunità degli Stati indipendenti (Csi) e dell’Unione economica eurasiatica (Uee), entrambe strutture guidate da Mosca, e nel suo territorio, da sempre baluardo strategico, conta ben quattro installazioni militari russe che comprendono anche una base aerea. Importanza notevole ha inoltre il volume delle rimesse economiche da parte dei lavoratori kirghisi che vivono in Russia che rappresenta circa un terzo del Pil del Paese. 

Meno “fraterni”, ma assolutamente indispensabili, anche i rapporti con la Cina, pur in un clima storicamente ostile da parte dei kirghisi nei confronti dei vicini cinesi. Il debito di Bishkek nei confronti di Pechino ammonta a 1,8 miliardi di dollari, soprattutto per i prestiti legati al progetto della Nuova Via della Seta che prevede il passaggio strategico in territorio kirghiso. Per far fronte al debito, già nei mesi scorsi era stata valutata la possibilità di vendere risorse naturali alla Cina. In particolare Japarov aveva proposto di utilizzare a tale scopo il giacimento di ferro Jetim-Too, uno dei più grandi al mondo. Ma la Cina ha già molti altri impianti e miniere in Kirghizistan, di cui alcuni erano anche stati presi di mira dai manifestanti durante le proteste di ottobre 2020 creando comprensibile tensione con Pechino.

Ma a turbare i primi passi di Japarov ci sarebbe anche una presenza ingombrante, affacciatasi a Bishkek nei mesi scorsi. Si tratta del lobbista internazionale Ari Ben-Menashe, nato in Iran, poi agente israeliano e oggi cittadino canadese, noto alle cronache mondiali per il suo ruolo nell’affare Irangate, ma anche coinvolto più di recente in faccende controverse in vari Paesi come Zimbabwe, Sudan, Venezuela e Libia. Ben-Menashe, titolare di una società in Canada, avrebbe incontrato Japarov dopo il suo insediamento a ottobre in forza di un contratto milionario nell’ambito di un non precisato sviluppo economico in Kirghizistan. Una questione venuta fuori dopo la registrazione del contratto che ha costretto a una frettolosa conferenza stampa il presunto committente, Abdymanap Karchygaev, uomo d’affari kirghiso che vive da anni in Russia. Una questione complessa, che pone interrogativi sui crescenti interessi internazionali sul Kirghizistan. Pur non avendo le risorse energetiche dei suoi vicini, infatti, questo Paese montuoso e spesso dimenticato potrebbe nascondere grandi riserve di terre rare sempre più preziose e ambite nell’era dell’elettronica. E numerose esplorazioni sarebbero già state avviate in tal senso.




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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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http://www.eu/ita/archivio/Il-Kirghizistan-di-Japarov-tra-Russia-e-Cina-e-non-solo--di-Pierluigi-Franco-899-ITA.asp 2021-02-04 daily 0.5