Il Tajikistan tra radicalizzazione religiosa e dipendenza dalla Russia (di Giannicola Saldutti)

Il problema della radicalizzazione religiosa e degli sconvolgimenti politici da essa derivabili sembra attanagliare sempre più la repubblica del Tajikistan, sita in un’area dalla rilevanza fondamentale per gli interessi strategici di Russia e Cina, ovvero gli attori protagonisti del nuovo “Grande Gioco” in Asia Centrale. A preoccupare gli analisti più attenti all’evolversi di questo genere di dinamiche sono state le recenti rivolte avvenute nelle strutture detentive site in Vahdat, località a pochi chilometri dalla capitale Dushambe, famose per accogliere diversi dissidenti politici appartenenti al partito d’opposizione della “Rinascita Islamica” (IRPT). Le rivolte, sedate nel sangue dalle forze speciali tagike, hanno fatto anche vittime “illustri”: secondo le autorità locali, infatti, sono rimaste uccise tre guardie carcerarie e ben 29 detenuti, tra cui diversi membri di spicco del Partito d’opposizione di matrice islamista e represso con la forza dal Presidente Rahmon, ininterrottamente in carica dal 1992.

Il comunicato afferma che uno dei leader dei rivoltosi risponde al nome di Behruz Gulmurod, il figlio maggiore di Gulmurod Halimov, ex comandante delle forze speciali del Ministero degli Interni tagiko che si è arruolato per lo Stato Islamico nel 2015. Già nel 2016, il Dipartimento di Stato americano aveva definito Halimov un membro chiave dell'Isis, offrendo una ricompensa pari a 3 milioni di dollari per chiunque desse informazioni certe per favorirne la cattura. Behruz Gulmurod, 20 anni, è stato arrestato in Tagikistan nel 2017 e condannato a 10 anni di prigione dopo essere stato dichiarato colpevole di aver tentato di unirsi a un gruppo di militanti stranieri. La dichiarazione afferma che i rivoltosi hanno incendiato l'unità medica della prigione, hanno preso in ostaggio diversi detenuti e hanno attaccato le guardie mentre cercavano di scappare.

Tra i caduti, anche altri membri dell'IRPT come Saeed Qiyomiddin Ghozi e Sattor Karimov, entrambi in carcere per scontare una lunga pena detentiva in seguito alle accuse di tradimento e terorismo, viziate, secondo l’opposizione, da motivazioni politiche. L'IRPT, infatti, è stato etichettato come gruppo terroristico, bandito dalla legge già nel 2015. Dozzine di funzionari e sostenitori dell'IRPT sono stati perseguiti e molti di loro incarcerati, attirando ulteriori critiche al governo di Rahmon da parte di diverse agenzie di monitoraggio che si occupano di diritti umani. 

La rivolta di Vahdat ha seguito di poco la tanto attesa Conferenza sulla cooperazione internazionale e regionale per contrastare il terrorismo e il suo finanziamento attraverso il traffico illecito di stupefacenti e il crimine organizzato tenutasi proprio a Dushambe nel mese di maggio. Stando a quanto riportato dall’agenzia di stampa degli Emirati Arabi, il Presidente Rahmon ha affermato che "le attività delle forze terroristiche e estremiste internazionali hanno scosso le fondamenta della sicurezza internazionale e causato una situazione instabile in varie regioni del mondo." In questo contesto, Rahmon ha sottolineato la necessità di rafforzare le potenzialità dei paesi e dei loro servizi speciali al fine di prevenire il terrorismo e l'estremismo. Il leader tagico ha inoltre osservato che il fatto che organizzazioni terroristiche ed estremiste utilizzino le tecnologie dell'informazione per diffondere le loro idee estremiste e reclutare persone nelle loro fila suscita gravi preoccupazioni. La strategia messa in atto dal Tajikistan per affrontare il problema non sembra sortire gli effetti desiderati. Gli ultimi sanguinosi avvenimenti, sommati all’attentato dello scorso anno che ha visto cadere in quanto vittime quattro turisti occidentali (due americani, uno svizzero ed un olandese) uccisi in un agguato a 250 kilometri a sud di Dushambe, lanciano un campanello d’allarme forte per un Paese che rischia, a dispetto del rigido controllo del potere adoperato da Rahmon e dalla sua cerchia, di scivolare nel caos, in preda ad una destabilizzazione che non sembra minimamente poter riuscire a gestire, o almeno non senza la costante presenza ed appoggio dell’esercito russo, già intervenuto a più riprese per sedare la guerra civile deflagrata dopo la dissoluzione dell’Urss e terminata soltanto nel 1997. 

Mosca sembra essere costantemente interessata a monitorare la temperatura raggiunta a Dushambe e per un buon motivo: i fenomeni migratori che, ogni anno, portano milioni di cittadini maschi tagiki a trasferirsi in Russia per trovare migliori condizioni di vita ed aiutare materialmente le famiglie attraverso le cosiddette “rimesse personali”, le quali ancora oggi compongono una buona fetta dell’economia di alcuni Paesi centro-asiatici in grossa difficoltà economica come il Tajikistan, nel caso del quale arriverebbero a coprire addirittura la metà del PIL. Proprio nelle scorse settimane la polizia russa ha trattenuto due cittadini tagiki colpevoli di aver organizzato un attentato (poi sventato) nella regione di Mosca e riconosciuti come direttamente affiliati allo Stato Islamico. La radicalizzazione dei migranti centroasiatici rappresenta un problema enorme per la stabilità interna della Russia, messa alla prova da politiche migratorie che si sono preoccupate di fornire ai migranti economici i lavori più duri e a condizioni svantaggiose, senza però lavorare adeguatamente su un’integrazione che neanche la memoria comune costituita dall’esperienza sovietica sembra poter ripristinare. La strada della marginalizzazione sociale porterà, inevitabilmente, acqua al mulino della radicalizzazione religiosa. 




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