Il conflitto del Nagorno-Karabakh tra Kant e le risoluzioni dell'Onu (di Giulio Chimienti)

Il conflitto tra armeni e azeri, cominciato già con gli scontri del 1905 e all’indomani della rivoluzione russa del 1917, si è radicalmente inasprito con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Risalgono infatti al 1988 i primi scontri armati tra Armenia e Azerbaigian per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh; scontri che sfociarono ben presto nella “prima guerra del Nagorno-Karabakh” e che, nonostante vari tentativi di pacificazione (per esempio, la Dichiarazione di Zheleznovodsk del 23 settembre 1991 e la Dichiarazione di Teheran del 7 maggio 1992) e l’adozione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (n. 822 del 30 aprile 1993, n. 853 del 29 luglio 1993, n. 874 del 14 ottobre 193 e n. 884 del 12 novembre 1993), terminarono soltanto il 5 maggio 1994 con l’Accordo di Biskek.

Tuttavia le tensioni tra armeni e azeri non sono mai realmente cessate e infatti, dal ’94 ad oggi, la tregua è stata ripetutamente violata. A tal proposito, la Guerra del Nagorno-Karabakh (che gli armeni preferiscono chiamare Artsakh)  a cui abbiamo assistito lo scorso autunno, è solo l’ennesimo esempio di rottura di quel regime di “cessate il fuoco” e di pacifica convivenza tra i due stati; tre, se si considera la Repubblica di Artsakh, costituita dalla regione del Nagorno-Karabakh e dai sette distretti circostanti conquistati dagli armeni nel corso del conflitto. La “seconda guerra del Nagorno-Karabakh”, iniziata il 27 settembre 2020 a seguito di un attacco azero ai danni della città di Stepanakert, è giunta al termine grazie alla mediazione della Russia; infatti, dopo 44 giorni di scontri, il 9 novembre 2020 è stato firmato un accordo trilaterale tra Russia, Armenia e Azerbaigian, attraverso il quale si è stabilita un’immediata cessazione delle ostilità.

L’accordo, entrato effettivamente in vigore il 10 novembre, riporta le dichiarazioni del Primo Ministro della Repubblica di Armenia (Nikol Pashinyan), del Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian (Ilham Aliyev) e del Presidente della Federazione Russa (Vladimir Putin); dichiarazioni, compendiate in nove punti, che consacrano gli obblighi assunti dalle tre nazioni per addivenire nel più breve tempo possibile alla composizione dell’attuale crisi, oltreché ad una sua soluzione definitiva.

La tregua siglata tra Armenia e Azerbaigian, grazie all’egida della Russia, garantisce e tutela l’incolumità di sfollati, rifugiati e prigionieri di guerra ma, al tempo stesso, costituisce una dura sconfitta per l’Armenia e una chiara vittoria per l’Azerbaigian; infatti, in forza dell’accordo, l’Armenia è obbligata a cedere i territori conquistati militarmente dall’esercito azero, oltreché restituire i distretti di Kelbajar, Aghdam e Lachin all’Azerbaigian; inoltre, l’accordo prevede che entro i prossimi tre anni venga costruito un “corridoio” nel distretto di Lachin che, come stabilito, proseguirà in territorio nazionale armeno, e un altro nel distretto di Meghri, al confine con l’Iran, al fine di garantire la libera circolazione di cittadini, veicoli e merci tra l’Azerbaigian e l’exclave della Repubblica Autonoma di Nakhichevan.

Nell’accordo sono esplicitate tutte le misure atte a prevenire una grave catastrofe umanitaria, oltre ad essere prospettati quei comuni obbiettivi la cui realizzazione sarebbe senza dubbio di interesse e vantaggio per tutte le parti stipulanti; tuttavia, emerge con evidenza il riconoscimento dei successi militari dell’Azerbaigian, nonostante quest’ultimo sia da ritenersi, di fatto, responsabile del conflitto; responsabilità riconosciuta anche dal Parlamento Europeo, che ha condannato l’aggressione azera oltreché “il ruolo destabilizzante della Turchia, che mina ulteriormente la fragile stabilità in tutta la regione del Caucaso meridionale”, invitando quest’ultima “ad astenersi da qualsiasi interferenza […] compresa l’offerta di sostegno militare all’Azerbaigian” [Artt. 24 e 38 della Risoluzione del Parlamento Europeo sull’attuazione della politica estera e di sicurezza comune (2020/2206 INI)].

I termini dell’accordo sembrano rievocare il contenuto delle già citate risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, cui si aggiungono le risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (n. 48/114 del 20 dicembre 1993, n. 60/285 del 7 settembre 2006 e n. 62/243 del 14 marzo 2008); ed è proprio alle risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che potremmo ricondurre le ragioni che, in parte, legittimerebbero l’offensiva azera e lo scoppio della seconda guerra del Karabakh. Perché “in parte”?

Premesso che il fine ultimo delle Nazioni Unite, così come recita l’art. 1 del suo statuto, sia “mantenere la pace e la sicurezza internazionale” e che di conseguenza vige il divieto assoluto di ricorrere alla forza militare per la risoluzione di qualsivoglia controversia tra gli Stati, va comunque considerato che detto divieto è soggetto a delle deroghe, ossia la “legittima difesa” e il cd. “diritto di intervento”, che ricorrono ogni qualvolta sussistano condizioni che consentirebbero e legittimerebbero l’uso della forza come extrema ratio.

È bene premettere che, al momento dell’offensiva azera, non sussisteva alcuna circostanza che potesse giustificare l’uso della forza militare ai sensi dell’art.51 della Carta delle Nazioni Unite; infatti, l’uso della forza militare si considera una misura di carattere eccezionale a cui poter ricorrere soltanto in esercizio della “legittima difesa”. Per “legittima difesa” si intende la facoltà di rispondere, sia in forma individuale che collettiva, ad un attacco armato sul proprio territorio. Inoltre, la “legittima difesa” è consentita solo se risponde ai principi di immediatezza, necessità e proporzionalità. Va specificato infine che non rientra nella fattispecie della “legittima difesa” la cd. anticipatory self-defence (“legittima difesa preventiva”), vale a dire la risposta alla minaccia di un attacco armato temuto, quindi solo eventuale o potenziale.

Alla “legittima difesa” si affianca il “diritto di intervento” che deriva dai principi di sovranità territoriale e uguaglianza degli Stati, affermati dalla Carta delle Nazioni Unite; pertanto, in forza di detti principi, è da considerarsi illecito l’intervento in qualsiasi forma di costrizione (quindi anche l’intervento di carattere militare) che mira ad interferire nelle scelte di politica interna o estera, e sociali di un altro Stato, attraverso l’uso di forme di costrizione.

Ciò nonostante, la storia contemporanea ci offre esempi in cui l’intervento è stato giudicato ammissibile poiché fondato su presupposti che lo consentivano e tenuto conto delle predeterminate finalità cui esso mirava; allo stesso modo, non mancano esempi in cui l’Assemblea delle Nazioni Unite, appellandosi all’art. 2 par. 4, abbia condannato l’esercizio improprio del “diritto di intervento”, poiché ritenuto oltremodo sproporzionato.
Considerate queste due deroghe al divieto di uso della forza militare, purtuttavia, tanto la “legittima difesa” quanto il “diritto di intervento” non sono liberamente esercitabili dagli stati, ma, come già detto, solo in presenza di determinati presupposti che ne giustificano l’esercizio; inoltre, sono misure la cui adozione è soggetta a procedure che prevedono obbligatoriamente il coinvolgimento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Appurato che l’ordinamento internazionale pone il divieto assoluto dell’uso della forza e considerato che nessuna circostanza poteva derogare a detto divieto a tal punto da giustificare le azioni dell’esercito azero, ciò pone la condotta dell’Azerbaigian in violazione dei principi fondamentali sanciti nella Carta delle Nazioni Unite, oltreché dell’art. 2 par. 3 e 4 della Carta; inoltre, stando alle testimonianze raccolte dall’organizzazione Human Right Watch, l’esercito azero, in violazione delle Convenzioni di Ginevra, avrebbe condotto le ostilità anche contro obbiettivi non militari, utilizzato armi non convenzionali e infine sottoposto a tortura e maltrattamenti i prigionieri di guerra.

Tuttavia, l’Azerbaigian giustifica la sua recente offensiva nel Nagorno -Karabakh condannando la mancata attuazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e invocando il “principio dell’integrità territoriale” quale limite al “diritto di autodeterminazione dei popoli”; infatti, dette risoluzioni furono adottate proprio contro l’impropria applicazione del “principio di autodeterminazione dei popoli” ad opera della minoranza armena del Nagorno-Karabakh e quindi in osservanza del “principio dell’integrità territoriale” e dell’uti possidetis rivendicati dall’Azerbaigian, che patì la perdita dei territori del Nagorno-Karabakh a seguito della nascita della Repubblica dell’Artsakh.

A tal proposito serve spiegare perché nel caso del Nagorno-Karabakh si parla di applicazione impropria del “principio di autodeterminazione dei popoli”. Questo principio è riconducibile agli artt. 1 par. 2, 55, 76 della Carta delle Nazioni Unite; principio ulteriormente affermato nella risoluzione n. 1514 del 15 dicembre 1960, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Attraverso questo principio si riconosce al popolo, sottoposto a governo straniero, l’aspettativa e l’aspirazione di divenire Stato autonomo e indipendente.
Tuttavia, il “principio di autodeterminazione” incontra un limite, ossia il “principio dell’integrità territoriale”, enunciato all’art. 2 par. 4 della stessa Carta, in virtù del quale gli Stati membri devono astenersi dall’uso della forza, al fine di violare l’integrità territoriale di un altro Stato.

In base al principio di integrità territoriale, il diritto all’autodeterminazione non dovrebbe essere riconosciuto ad un popolo, qualora l’esercizio del diritto stesso comporti lo smembramento dell’unità territoriale di uno stato. Dunque è per questo motivo che le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale non hanno mai riconosciuto le pretese armene sulla regione del Nagorno-Karabakh (territorio a maggioranza armena in territorio azero); regione a cui, stando ai testi delle risoluzioni, ci si riferisce come «region of the Azerbaijani Republic». 

L’accordo trilaterale tra Armenia, Azerbaigian e Russia sembrerebbe quindi  dare attuazione alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale. Occorre tuttavia considerare che tale accordo mette a serio rischio la possibilità che gli armeni del Nagorno-Karabakh  possano continuare a vivere nella regione se le forze russe di peace-keeping la abbandoneranno tra cinque anni su richiesta dell’Azerbaigian , come previsto dall’accordo. Questo costituisce una ferita gravissima per gli armeni,che dal punto di vista storico e culturale rivendicano legittimamente come proprio questo territorio. In questo modo si alimenta un risentimento profondo e duraturo, parallelo a quello conosciuto da Baku a causa dell’occupazione armena di vasti distretti etnicamente azeri dopo il 1994. L’esito della guerra del Nagorno-Karabakh nel 2020 ha cioè rovesciato la situazione precedente, violando aspettativi e diritti di una parte a esclusivo vantaggio dell’altra. Questo esito  apre, seppure indirettamente, la strada all’antica legge del più forte che premia la superiorità militare, confermando l’idea che la guerra sia uno strumento efficace e diretto per risolvere le controversie tra le nazioni. Ma, come recita il primo degli “Articoli preliminare ad una pace perpetua tra le nazioni” di Immanuel Kant, “Nessun trattato di pace deve essere considerato come tale se stipulato con tacita riserva di argomenti per una guerra futura”.




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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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http://www.eu/ita/archivio/Il-conflitto-del-Nagorno-Karabakh-tra-Kant-e-le--risoluzioni-dell-Onu-di-Giulio-Chimienti-941-ITA.asp 2021-05-06 daily 0.5