Il contrasto finanziario degli Usa alla “Belt and Road Initiative” cinese (di Massimo Ortolani)

La Development Financial Corporation statunitense (DFC) ha di recente pubblicato la sua prima strategia programmatica: la Roadmap for Impact: Inaugural Development Strategy. La DFC è una nuova agenzia federale, nata dal consolidamento della OPIC (Overseas Private Investment Corp.) con la DCA (Development Credit Authority), questa ultima facente capo alla US Agency for International Development.
La sua mission istituzionale è di generare prevedibilmente investimenti per 75 miliardi di dollari nelle economie di paesi emergenti nei prossimi 5 anni: dei quali 25 a valere su fondi della DFC, e 50 da mobilitare grazie a partnership finanziarie con il settore privato. La collaborazione con gli investitori privati, con i quali sperimentare strumenti, metodi e partenariati di finanziamento misto innovativi – come anche la disponibilità a considerare prospetticamente una gamma molto ampia di progetti bancabili – sono considerate fattori basilari per superare le persistenti barriere agli investimenti privati negli attuali contesti dei paesi emergenti.
Ma la strategia finanziaria mira ad esplorare opportunità di collaborazione anche oltre il settore privato (fondi pensione), e cioè con partners pubblici come i fondi sovrani.
Ma la strategia finanziaria mira ad esplorare opportunità di collaborazione anche oltre il settore privato (fondi pensione), e cioè con partners pubblici come i fondi sovrani.
L’ obiettivo di aiuto che la Roadmap prospetta al singolo paese target non appare circoscritto alla considerazione del solo contributo al tasso di sviluppo economico nazionale. Dovendosi intendere esteso anche ai benefici ritraibili in termini ambientali, nonché alla capacità progettuale di alimentare la vocazione nazionale per l’adozione degli standard giuridici propri della “rule of law” (the project’s contribution to the strengthening of the enabling environment and rule of law (e.g., if a project leads a country to adopt international standards on dispute resolution). Nella prassi operativa individuabile sostanzialmente nel rispetto dei diritti umani in generale e dei lavoratori in particolare. Un chiaro segno, questo, di differenziazione dall’approccio geopolitico cinese, invece di non interferenza anche indiretta sulle tematiche di ordine istituzionale nel paese ospite.
La rilevanza di tale aspetto “metaeconomico” appare sinteticamente rispecchiata dall’impegno di DFC ad una valutazione progettuale guidata dalla procedura “IQ”. Un set di indicatori che consente a DFC di classificare in progetti potenzialmente finanziabili in base al loro impatto valutato in termini di: crescita, inclusione, innovazione.
In relazione, in particolare, ai paesi in via di sviluppo classificabili come “fragili” sul piano di indicatori quali resilienza economico/finanziaria – e soprattutto vulnerabilità sul piano della stabilità politica – l’intento è quello di far leva sull’operato di altre agenzie governative attive su di uno stesso paese target, al fine di avvalersi di sinergie di conoscenza e di esperienza. Quali, in particolare, l’USAID, i dipartimenti della Difesa, degli Interni, e del Tesoro. Oltre ad avvalersi del supporto di ambasciate, camere di commercio ed associazioni di categoria per identificare i potenziali clienti.
Poiché gli approcci finanziari “misti” sono inoltre considerati di importanza fondamentale per ridurre i rischi ed espandere il pool di progetti bancabili, si è previsto che la strumentazione finanziaria si avvalga di prestiti diretti e di garanzie per un importo max di 1 miliardo di USD, con un tenor max di 25 anni, relativamente a programmi di interesse specifico per un target rappresentato dalle PMI statunitensi.
Mentre i “rischi paese” coperti dalle garanzie offerti sono quelli tipici dell’incovertibilità della valuta, della contract frustration dovuta ad interferenze/ingerenze dell’apparato pubblico, o ad eventi riconducibili a rivolte, atti di terrorismo, ecc. Da qui il presupposto per un rapporto sinergico potenziale anche con l’operato della Eximbank. Il cui Program on China and Transformational Export si prefigge di neutralizzare, per le aziende esportatrici statunitensi, l’effetto delle sovvenzioni all’export, per i beni e servizi concorrenti offerti da Pechino.
Ma la valenza geopolitica e geoeconomica di tale approccio emerge con nitidezza ed immediatezza dai tre macro-obiettivi sottesi a tale iniziativa, di cui all’immagine presentata nel testo della Roadmap. Merita inoltre sottolineare come i criteri di selezione degli ambiti applicativi non siano configurati su base territoriale, stante la dispersione planetaria dei fenomeni oggetto di intervento: supporto alla diversificazione delle filiere produttive critiche, promuovere l’autosufficienza e la sostenibilità all’interno dei paesi target, espandere le possibilità di partnership con imprese americane.
Una configurazione di modalità operative, dunque, che riscuoterà sicuramente il supporto anche dell’ amministrazione Biden. In primo luogo perché evita uno scontro diretto di natura istituzionale con il rivale sistemico asiatico, come invece accadeva con le modalità di guerra economica di trumpiana memoria. E, secondariamente, perché conferisce uno strategico ruolo geopolitico alla diplomazia della finanza, idoneo a consentire alla nuova politica estera statunitense di conquistarsi maggiore fiducia presso gli apparati governativi dei paesi dove la B&R ha già creato forme di dipendenza politico-strategica dalla Cina, ovvero nuove alleanze laddove la B&R non sia destinata a penetrare, stanti gli impatti prospettici della pandemia e della dual circulation strategy sulla politica estera cinese.
Ma la valenza geopolitica e geoeconomica di tale approccio emerge con nitidezza ed immediatezza dai tre macro-obiettivi sottesi a tale iniziativa, di cui all’immagine presentata nel testo della Roadmap. Merita inoltre sottolineare come i criteri di selezione degli ambiti applicativi non siano configurati su base territoriale, stante la dispersione planetaria dei fenomeni oggetto di intervento: supporto alla diversificazione delle filiere produttive critiche, promuovere l’autosufficienza e la sostenibilità all’interno dei paesi target, espandere le possibilità di partnership con imprese americane.
Una configurazione di modalità operative, dunque, che riscuoterà sicuramente il supporto anche dell’ amministrazione Biden. In primo luogo perché evita uno scontro diretto di natura istituzionale con il rivale sistemico asiatico, come invece accadeva con le modalità di guerra economica di trumpiana memoria. E, secondariamente, perché conferisce uno strategico ruolo geopolitico alla diplomazia della finanza, idoneo a consentire alla nuova politica estera statunitense di conquistarsi maggiore fiducia presso gli apparati governativi dei paesi dove la B&R ha già creato forme di dipendenza politico-strategica dalla Cina, ovvero nuove alleanze laddove la B&R non sia destinata a penetrare, stanti gli impatti prospettici della pandemia e della dual circulation strategy sulla politica estera cinese.
Tali modalità operative consentirebbero inoltre a Biden di evitare esibizioni a forte impronta nazionalistica sul piano delle relazioni internazionali, come si è visto con l’opposizione trumpiana alla scelta della candidata nigeriana alla posizione di direttore generale del WTO, dato l’elevato coinvolgimento cinese in investimenti strategici in Nigeria. Consentendogli invece di meglio avvalersi di un appoggio geopolitico acquisibile ex ante, in linea con quanto appunto avvenuto per la scelta dei nuovi membri non permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: Kenya, India, Irlanda, Messico e Norvegia.
Merita sottolineare che il ruolo della diplomazia nella scelta dei vertici delle più importanti sedi del multilateralismo acquisirà rilevanza strategica crescente nel prossimo futuro. La selezione dei vertici di organismi sovranazionali quali, ISO (organizzazione internazionale per la normazione) o della WIPO (proprietà intellettuale), per non parlare di quello sulla sanità, o dell’WTO, si sta infatti dimostrando di decisiva rilevanza geopolitica e geoeconomica, in un contesto di globalizzazione dominato da implicazioni normative e di standardizzazione con impatti non solo economici, ma anche di sicurezza nazionale.
Iniziative come queste ci insegnano come il rapporto con la Cina vada saputo gestire con la preparazione organizzativa e la proattività proprie dell’intelligence economica, al fine di evitare che rapidi entusiasmi iniziali verso il Dragone siano destinati a spegnersi con altrettanta rapidità, come recenti esperienze nostrane hanno dimostrato.
(Tratto da http://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/usa-bri-cina/)