Il contributo italiano per la protezione del patrimonio culturale in Asia Centrale (di Alessandra Russo)

In risposta alla sollecitazione di individuare possibili partenariati tematici e traiettorie di cooperazione tra Italia e Paesi della regione centroasiatica, una delle presentazioni ha preso spunto dal sempre più attivo ruolo dell’Italia nella costruzione di un modello di governance regionale e globale per la protezione del patrimonio culturale in contesti di conflitto, instabilità e fragilità socio-politica; e dalla contestuale e parallela valorizzazione delle Vie della Seta – un processo inaugurato anche dall’UNESCO già alla fine degli anni Ottanta e recentemente rilanciato nel quadro della Belt and Road Initiative a trazione cinese.
È proprio considerando il patrimonio culturale sia come possibile veicolo, catalizzatore e strumento di resilienza presso le comunità locali che come vettore di cooperazione intergovernativa e transnazionale, che si è ritenuto interessante proporre in sede di Forum il consolidamento di un dialogo con attori di diversa natura attivi nel campo della protezione dei beni e dei siti di interesse culturale nella regione centroasiatica – dialogo che potrebbe oltretutto potenziare l’attorialità dei Paesi della regione negli organismi internazionali competenti e nelle arene multilaterali (aspetto per esempio già testimoniato dalle memberships nel World Heritage Committee, rispettivamente, di Kazakistan, dal 2013 al 2017, e Kirghizistan, dal 2017 al 2021).
Le tematiche legate alla protezione del patrimonio culturale e alla sua dimensione internazionale sono state più volte presentate, negli ultimi mesi, come caratterizzanti la Presidenza italiana G20. Per esempio, nell’ambito di una serie di incontri preparatori in vista della conferenza ministeriale Cultura G20 (luglio 2021), il Ministro dei Beni Culturali ha richiamato la visione italiana sulla creazione dei c.d. “caschi blu della cultura”, il ruolo storico del nostro Paese nel contrasto al traffico illecito dei beni culturali e le opportunità offerte in questo campo dall’utilizzo di nuove tecnologie. Sarebbe fuorviante non considerare la profondità storica di questa “linea di azione” nella politica estera italiana: basti ricordare l’istituzione del Nucleo dei Carabinieri per la Protezione del Patrimonio Culturale, che ha contribuito al delinearsi del concetto di “crimine contro il patrimonio culturale”; inoltre quanto l’Expo di Milano, ed in particolare la conferenza internazionale dei Ministri della Cultura, abbia rappresentato un’occasione significativa per ribadire un certo attivismo italiano in questo campo; infine, l’impulso italiano al concetto di “cultural peacebuilding”.
La proposta di integrazione di una componente culturale nei mandati delle missioni internazionali nei contesti di crisi e conflitto ha pure stimolato l’elaborazione di un memorandum di intesa con l’UNESCO per la creazione di una Unite4Heritage Task Force affiancata da un International Training and Research Centre on the Economics of Culture and World Heritage.
Nonostante i numerosi progetti che coinvolgono l’Italia rispetto alla salvaguardia, conservazione e ricostruzione del patrimonio culturale in Paesi terzi, il potenziale di partenariato con quelli dell’area centroasiatica non sembra ancora essersi espresso a pieno. Eppure, la valorizzazione del patrimonio culturale è stata centrale per i Paesi centroasiatici soprattutto nei processi di rilegittimazione di un’identità nazionale, di una memoria condivisa e di miti fondativi. Le stesse Vie della Seta, costituita di migliaia di chilometri di rotte carovaniere e reti commerciali puntellate da mausolei, moschee, nella propria dimensione transnazionale e transfrontaliera in qualche modo “sfida” o comunque supera la “trappola territoriale” legata ad un’interpretazione del patrimonio culturale in termini solo nazionali o territoriali e di proprietà esclusiva. Anche traendo ispirazione da queste caratteristiche, dal 2003, insieme ai cinque Paesi centroasiatici e alla Cina, il World Heritage Centre ha coordinato la preparazione di una serie di candidature transnazionali per l’inscrizione delle Vie della Seta nelle liste del patrimonio mondiale; e dal 2014 la “Routes Network of Chang’an-Tianshan Corridor” (che attraversa Cina, Kazakistan e Kirghizistan e comprende più di 30 siti) è iscritta nella World Heritage List.
Altri Paesi (Stati Uniti, Giappone, Paesi Bassi, Norvegia, per menzionarne alcuni) hanno intuito il valore del patrimonio culturale centroasiatico, e contribuito a progetti di cooperazione in questo campo. È proprio in questo panorama che l’Italia potrebbe inserirsi.
L’Italia è generalmente considerata come luogo in cui si consolidano percorsi di formazione e di potenziamento di figure professionali fondamentali nella protezione e conservazione del patrimonio culturale (Istituto per la Conservazione ed il Restauro con i rispettivi International Training Projects; missioni archeologiche italiane finanziate dal Ministero degli Esteri e Cooperazione Internazionale); tuttavia, un protagonismo non adeguatamente ponderato potrebbe nascondere delle criticità, soprattutto in quei contesti in cui il patrimonio culturale è oggetto di contestazione o disputa, dove le dinamiche di “heritagisation” e “securitisation” si intrecciano, dove molteplici attori co-esistono e si sovrappongono con modalità ed agende diverse.
Per questo, se tali traiettorie di cooperazione verranno battute, queste dovranno essere inestricabilmente legate ad una comprensione il più approfondita possibile dello specifico contesto socio-politico nel quale le iniziative di protezione del patrimonio culturale si dispiegano: una consapevolezza, quindi, sensibile al contesto e all’impatto materiale (configurazione spaziale, distribuzione delle risorse, coinvolgimento di attori locali) e immateriale (simbolico-narrativo), ponendo particolare attenzione alla costante interlocuzione con gli interlocutori locali.
Alessandra Russo
Ricercatrice presso il dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università di Trento