Il coronavirus in Kazakistan: le difficoltà politiche ed economiche del colosso dell'Asia Centrale (di Pierluigi Franco)
Tra silenzi e mezze verità, il Kazakistan sta facendo pesantemente i conti con il coronavirus. E’ infatti l’epidemia, più di qualunque strategia internazione o lotta interna, a mettere in difficoltà il più grande Paese dell’Asia centrale e più importante produttore di petrolio della Comunità di Stati Indipendenti, potenza economica che racchiude oltre il 60% delle risorse minerarie di quella che fu l’Unione Sovietica.
A far comprendere la difficile situazione è stato, il 25 giugno scorso, lo stesso presidente kazako, Kassim-Jomart Tokaev, che ha licenziato il ministro della Sanità, Elzhan Birtanov, colpito a sua volta da coronavirus, sostituendolo con Aleksei Tsoi.
Nonostante le cifre ufficiali, che parlano di 33.000 casi di contagiati e 140 morti (all’inizio di giugno erano stati dichiarati 11.000 contagi e 45 morti), gli analisti ritengono che le cifre siano di gran lunga maggiori e che il Paese sia nel pieno di un'ondata di contagi, come dimostrano anche le misure di chiusura adottate a più riprese dal governo.
Il coronavirus, d’altra parte, sembra non aver risparmiato neppure gran parte dei vertici kazaki, tra i quali l’ex potentissimo presidente, Nursultan Nazarbaiev, risultato positivo a metà giugno, venti giorni prima di compiere 80 anni (il 6 luglio). Anche il portavoce presidenziale, Berik Uali, e il presidente della Camera bassa del Parlamento, Nurlan Nigmatulin, sono risultati contagiati, mentre il capo del governo, Asqar Mamin e altri componenti dell’esecutivo hanno deciso di sottoporsi precauzionalmente ad autoisolamento.
Le misure anticontagio in Kazakistan erano state revocate l’11 maggio scorso, ma di fronte a una nuova ondata di ricoveri, è stato nuovamente dichiarato lo stato di emergenza e sono state chiuse numerose città. Una situazione che sta mettendo in ginocchio l’economia kazaka, già minata dal calo del prezzo del petrolio. Ancora più grave è il fatto che considerevoli focolai di coronavirus si sono sviluppati nei più importanti giacimenti petroliferi, in quelli di gas e nei siti minerari del Paese.
Ne è esempio l’annuncio di Chevron, riportato a fine maggio dai media di tutto il mondo, di far rimanere a casa i due terzi dei suoi dipendenti impiegati nel giacimento petrolifero di Tengiz, dove la compagnia statunitense è principale operatore, a causa del diffondersi dell’epidemia. Secondo i dati ufficiali, infatti, alla fine di maggio nell’impianto erano stati accertati oltre mille casi. Un colpo significativo se si pensa che si tratta di uno dei due più grandi giacimenti petroliferi in territorio kazako (l’altro è quello di Kashgan) con una capacità estrattiva di 650 mila barili al giorno che l’anno scorso hanno permesso di produrre quasi 30 milioni di tonnellate di petrolio a fronte dei 90 milioni complessivi del Kazakistan.
Ma il problema coronavirus, come annunciato a più riprese dal governo kazako sia pure in termini apparsi eccessivamente contenuti, non ha risparmiato neppure la provincia mineraria di Qaragandy, dove opera anche il colosso mondiale del rame Kazakhmys, quotato alla Borsa di Londra. I dati di contagio sono ancora incerti, anche se la stessa Kazakhmys aveva dichiarato a maggio di aver avuto qualche caso tra i suoi dipendenti e le autorità governative kazake avevano riferito di 350 casi nei siti minerari di Qaragandy.
Al di là dei numeri, però, la tensione ai vertici politici del Kazakistan è evidente. Prima di essere licenziato, lo stesso ex ministro della Sanità Birtanov aveva riferito i dati di contagio all’interno dei siti lavorativi, così come in importanti basi militari del Paese. Numeri ritenuti bassi dagli osservatori, ma pur sempre indicativi di un quadro preoccupante.
Il Kazakistan dell’era Tokaev appare dunque in difficoltà e sono grandi gli sforzi che si richiedono per far fronte a un’emergenza che rischia di minare il suo quadro economico e geopolitico. Il Paese, infatti, non può certamente permettersi in questo momento un crollo della produzione già minata dalla crisi dei prezzi. Questo renderebbe infatti fragile la sua posizione nei confronti dei competitori, ma anche nei confronti delle potenze mondiali che ritengono il Kazakistan strategico nell’ottica di una leadership centrasiatica.