Il nuovo corso della politica estera russa. Il caso dell’Alto Karabakh (di Aldo Ferrari)

Nei mesi scorsi molti hanno avuto l’impressione che dopo l’assertività dimostrata in Georgia nel 2008, in Ucraina nel 2014, in Siria nel 2015 e quindi in Libia la Russia sia entrata in una fase di incertezza, se non di debolezza, sulla scena internazionale. Le crisi politiche che hanno coinvolto negli ultimi mesi Bielorussia, Kirgizistan e Armenia sono state viste come un segnale  dell’indebolimento sostanziale di Mosca nello spazio post-sovietico e più in generale sullo scenario internazionale. Tanto più che negli ultimi decenni  questi  tre paesi sono stati – insieme al Kazakhstan - i più vicini a Mosca, essendo membri tanto dell’alleanza militare a guida russa (CSTO) quanto dell’Unione Economica Eurasiatica, che costituisce il principale tentativo russo di integrazione delle repubbliche post-sovietiche. Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, le difficoltà di Mosca nel mantenere le posizioni acquisite nello spazio post-sovietico sembravano confermate da quella che a molti appariva una sostanziale inattività riguardo al grave  conflitto nell’Alto Karabakh.

Il conflitto scatenato il 27 settembre dall’Azerbaigian con il sostegno politico e militare della Turchia ha visto in effetti per più di un mese Mosca mantenere una posizione guardinga. E questo nonostante il fatto che, a differenza dell’Azerbaigian, l’Armenia faccia parte della CSTO, vale a dire dell’alleanza militare a guida russa. In realtà, però, Mosca era ed è vincolata solo nei confronti dell’Armenia, non dell’Alto Karabakh, che secondo il diritto internazionale si trova infatti sul territorio dell’Azerbaigian. 

Il ruolo decisivo recitato da Mosca nella improvvisa conclusione del conflitto tra l’Armenia e l’Azerbaigian il 10 novembre sembra aver ampiamente modificato la diffusa impressione di incertezza se non di impotenza della Russia nei confronti di un conflitto che rischiava di compromettere non solo il suo ruolo nel Caucaso meridionale, ma anche l’immagine di forza e dinamismo costruita nei due decenni del potere di Putin. La maggior parte delle analisi post factum sottolinea adesso l’efficacia della politica di Mosca, capace di non farsi coinvolgere nel conflitto tra un paese “teoricamente” alleato come l’Armenia ed uno, l’Azerbaigian, con il quale i rapporti di collaborazione politica ed economica sono ottimi. E capace anche di imporre la sua presenza militare in forma di una missione di peace-keeping tra armeni e azeri. In questo modo Mosca è adesso presente militarmente in tutte e tre le repubbliche del Caucaso meridionale: Georgia (Abkhazia e Ossetia meridionale), Armenia (soprattutto la base di Giumri al confine con la Turchia e Megrhi al confine con l’Iran) e Azerbaigian (Alto Karabakh) rafforzando quindi notevolmente il suo ruolo nell’intera regione. 

In particolare l’azione russa sembra aver messo l’Armenia in una condizione di totale dipendenza da Mosca, rendendo illusorie le speranze in un maggiore avvicinamento all’Occidente coltivate dalla leadership armena dopo la “rivoluzione di velluto” del 2018. Naturalmente ci sono anche aspetti problematici nell’esito della guerra nell’Alto Karabakh, in particolare per quel che riguarda l’accresciuto ruolo di Ankara nel Caucaso meridionale, ma nel complesso Mosca ne è uscita sicuramente rafforzata.

Occorre però sottrarsi all’ottica ristretta delle situazioni contingenti e cercare invece di leggerle all’interno della dinamica complessiva della politica estera di Mosca. La visione di una Russia aggressiva, tesa a riconquistare i territori imperiali e sovietici, così diffusa in alcuni paesi europei (Polonia e repubbliche baltiche in primis) è a mio giudizio del tutto inconsistente, anche se si è ormai consolidata nelle istituzioni europee oltre che negli Stati Uniti.  Personalmente ritengo che la dirigenza russa abbia preso atto ormai da tempo della nuova e più limitata dimensione territoriale e politica del paese, abbandonando – con molta fatica, certo – ogni velleità di riconquista imperale. 

Mosca in effetti non ha sviluppato in questi anni nessuna costruzione ideologica volta a sostenerne una politica espansiva nei confronti delle altre repubbliche post-sovietiche. Non può esserlo evidentemente il nazionalismo, evidentemente percepito in maniera negativa al suo esterno e molto problematico anche in un paese ampiamente multietnico come la Russia; ma neppure l’eurasismo, così spesso evocato in Occidente come spauracchio ideologico neo-imperiale, in realtà limitato nel discorso ufficiale russo ad un uso parziale e quasi difensivo, soprattutto per quel che riguarda il progetto della cosiddetta Grande Eurasia, che in sostanza implica il riconoscimento del primato cinese in questa immensa area. 

La Russia si concentra ormai essenzialmente sul perseguimento di interessi nazionali proporzionati alle sue risorse, che sappiamo essere limitate a causa della stagnazione permanente e direi sistemica dell’economia.  La politica estera di Mosca è lineare, sobria, razionale; i suoi obbiettivi sono sempre concreti, a volte vengono raggiunti a volte no, a seconda – ovviamente – dei rapporti di forza reali esistenti sul campo: la Russia ha preso atto che il contrasto con l’Occidente è sostanziale, destinato a durare, e si muove di conseguenza; ha accettato la penetrazione della Cina in Asia Centrale nel quadro di una collaborazione più vasta e inevitabile, anche se diseguale; nel Caucaso meridionale, come già in Siria e Libia, ha trovato un accordo con la Turchia nonostante i contrastanti interessi; e così via. 

In conclusione, pur nella necessità di analizzare con attenzione le ripetute crisi  che si manifestano nello spazio post-sovietico ed il ruolo che Mosca recita al loro interno, sembra opportuno soprattutto tenere sempre presenti le linee fondamentali della politica estera della Russia, basate – oggi come in passato – sulla percezione da parte dell’élite politica degli interessi nazionali del paese. 

Anche se il suo peso all’interno dello scenario internazionale è destinato a ridursi ulteriormente - soprattutto in conseguenza del costante rafforzamento della Cina, divenuta ormai l’unica antagonista degli Stati Uniti su scala globale - l’idea che ci si trovi di fronte ad un momento di crisi della politica estera della Russia appare poco fondata. Il caso dell’Alto Karabakh sembra costituire una prova del fatto che Mosca continua a giocare bene le sue carte.




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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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http://www.eu/ita/archivio/Il-nuovo-corso-della-politica-estera-russa--Il-caso-dellAlto-Karabakh-di-Aldo-Ferrari-885-ITA.asp 2021-01-08 daily 0.5