Il nuovo livello di cooperazione in Asia centrale: una nuova variabile del “Grande Gioco”? (di Giannicola Saldutti)
Le nuove sfide globali rappresentate dalla lotta alle minacce terroristiche e dalle frammentazioni etnico-sociali hanno occupato le agende dei Paesi centroasiatici fin dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, evento storico di eccezionale portata che prometteva non soltanto di impoverire economicamente l’intera area, ma anche di “balcanizzarla” dal punto di vista territoriale, presupposto per una successiva ed inevitabile spartizione nell’interesse delle potenze straniere. A circa trent’anni da quell’ultimo grande “terremoto” geopolitico su scala mondiale, tutti questi infausti propositi possono dirsi, se non ampiamente, per una buona parte scongiurati. Sarebbe illogico negare che, nonostante le cinque Repubbliche centroasiatiche siano Stati sovrani a tutti gli effetti, l’ascendente politico, culturale, economico e militare di Russia e Cina stia pesando non poco sugli equilibri della regione, ma al contempo, nel processo di presa di coscienza e di emancipazione della classe politica centroasiatica, qualcosa sembrerebbe muoversi.
L’incontro che si terrà il 29 novembre a Tashkent vedrà i cinque capi di Stato degli Stan Countries riunirsi per la seconda volta in una riunione consultiva che ha come scopo l’intensificarsi della cooperazione a livello regionale, concetto che a prima vista sa di mero slogan, ma che non è poi così banale quando a centro del discorso vi sono cinque Paesi che, dal 1990, hanno sempre faticato a stabilire una strategia comune in materia di difesa e cooperazione economica. A tal proposito, una nota ufficiale del Ministero degli Esteri uzbeko chiarisce che i temi riguarderanno appunto la cooperazione regionale in ambito politico ed economico-commerciale nonché anche l’ambito degli investimenti e delle infrastrutture logistiche. I dissidi interni, riguardanti per lo più le rivendicazioni territoriali, nonché le ataviche rivalità che hanno diviso per secoli l’Asia centrale hanno assunto un peso specifico maggiore una volta che il sistema sovietico ha lasciato spazio alla difficile gestione di problematiche legate alla sfera dell’economia, dell’approvvigionamento, dell’identità nazionale e della difesa di uno spazio immenso, dalle caratteristiche geografiche che hanno sempre favorito il nomadismo a scapito delle civiltà stanziali, nonché eterna preda delle ambizioni strategiche delle potenze mondiali.
A tal proposito, numerosi analisti rievocano con insistenza il concetto di “Grande Gioco”, inventato nel XIX secolo dal capitano inglese Arthur Connolly, fatto prigioniero dall’Emiro di Bukhara e condannato a morte nel 1842 con l’accusa di spionaggio. Il famoso libro "Il grande gioco" pubblicato nel 1990 del giornalista Peter Hopkirk ha contribuito a fare luce sulla “guerra fredda” combattuta tra Impero russo e britannico nell’800 per il controllo delle steppe centroasiatiche per via del loro enorme potenziale strategico. A pochi anni di distanza dall’infausto viaggio di Connolly, infatti, le teorie di McKinder non avrebbero fatto altro che sancire l’importanza dell’Asia centrale in qualità di Heartland nonché l’ascesa della Russia in quanto di potenziale “minaccia” per gli interessi britannici su scala globale. Se all’epoca fu Pietroburgo ad aggiudicarsi l’intera posta, annettendo i territori al centro della contesa, allo stato attuale l’influenza russa sulla regione deve scontrarsi con una ricambio generazionale nelle cancellerie centroasiatiche che sembra essere sempre più cosciente dei cambiamenti geopolitici in atto: passando dal bipolarismo del post-dopoguerra ad un multipolarismo ancora in fase di definizione, i capi di Stato dei Paesi dell’Asia centrale sembrano aver compreso l’importanza assoluta di perseguire strategie condivise per evitare di essere letteralmente “schiacciati” nella girandola di interessi di Mosca e Pechino, attori di quello che sembrerebbe essere un nuovo “Grande Gioco” che ha, però, nuove regole e condizioni: attenti analisti non hanno mancato di notare come, nel nuovo assetto geopolitico mondiale, gli Stan Countries non siano più soltanto scacchiera, ma anche parte attiva nei nuovi processi.
Il nuovo corso dell’Uzbekistan post-Karimov e la presidenza di Tokaev in Kazakhstan rappresentano un esempio paradigmatico della nuova consapevolezza assunta da Tashkent e Nur-Sultan (i due attori in assoluto più maturi e promettenti dal punto di vista economico-politico) in materia di cooperazione: non a caso il testimone del primo incontro consultivo tra i cinque Paesi tenutosi nella capitale kazakha appena un anno fa è stato raccolto da Tashkent. In altre parole, la rivalità che ha contraddistinto il trentennio Karimov-Nazarbaev deve essere superato per portare avanti un processo di maturazione che si prospetta ancora lungo e complesso, anche considerando quelli che sono i progetti di Mosca e Pechino, i quali mettono a centro proprio l’Asia centrale ed il suo elevato potenziale di transito. Parliamo sia dell’Unione Economica Eurasiatica di matrice russa che della famosa Silk Way cinese, progetti nati in aperta opposizione, su due traiettorie senza dubbio incidentali, ma che gli sviluppi geopolitici mondiali (in primis, il deterioramento dei rapporti russo-occidentali) stanno contribuendo pian piano ad allineare.
Putin e Xi Jinping hanno firmato una dichiarazione comune riguardante il coordinamento dello sviluppo dell’UEE e della Silk Road Economic Belt, l’esito della quale è stato l’accordo regionale bilaterale raggiunto lo scorso maggio e di corrente implementazione, che dopo tre anni di trattative complesse ha creato un fondamento giuridico nel diritto internazionale che consolida l’interazione economica tra i due partner. L’accordo è di natura non-preferenziale e non prevede la riduzione automatica delle barriere non-tariffarie, tuttavia offre meccanismi di interazione in varie aree e ulteriori opportunità alle economie coinvolte. L’Asia centrale può trarre vantaggio dal nuovo asset Mosca-Pechino soltanto maturando una propria politica sub-regionale che metta da parte gli screzi del passato recente. In questo modo, il “Grande Gioco” potrà essere ulteriormente complicato da una nuova variabile di non poco conto, rappresentata dalla volontà strategica dei cinque Paesi che, a differenza del passato, si rifiutano di subire passivamente le mosse dei due giganti. Vincere questa sfida sarà a completo appannaggio di una nuova futura classe politica centroasiatica non più succube del passato sovietico, aperta ed attenta a cogliere le insidie ma anche gli innumerevoli vantaggi offerti dal nuovo assetto multipolare.