Il soft power della diaspora armena globale, un’opportunità strategica mancata (di Gabriele Beretta)

Nikol Pashinyan emerge indubbiamente dal conflitto nel Caucaso Meridionale come un leader sconfitto.  A poche ore dal discorso in cui annunciava di aver firmato un accordo ‘doloroso’ con l’Azerbaigian attraverso la mediazione della Russia, una folla inferocita e disperata di cittadini armeni ha assaltato Yerevan e in particolare il Parlamento, chiedendo a gran voce le dimissioni del Primo Ministro e gridando “dov’è Nikol? dov’è il traditore?”. 

Nelle ore successive, i peace-keeper russi hanno cominciato a entrare nel Karabakh – dove rimarranno almeno per i prossimi 5 anni – invitando le ultime forze armene a deporre le armi e iniziando a garantire il ritorno degli azeri nei territori riconquistati da Baku e gradualmente abbandonati dagli armeni, molti dei quali hanno dato fuoco alle proprie abitazioni prima di concederle al ‘nemico’. Questo è solo l’ultimo atto di una narrazione escludente e disumanizzante dell’altro – da entrambe le parti – e che per parte armena è stata esacerbata da una retorica intransigente e nazionalista del governo di Pashinyan. Questa precede il conflitto scoppiato nell’autunno ed ha avuto due conseguenze tangibili: in ambito domestico, quella di galvanizzare e unire il popolo armeno all’insegna di una percepita lotta per la sopravvivenza, restringendo però ulteriormente i propri margini diplomatici quando sarebbe stato possibile ed opportuno scendere a compromessi; in ambito internazionale, quella di soffiare sul fuoco identitario e patriottico della comunità armena nelle sue diaspore sparse per il mondo e che comprendono – secondo alcune stime – circa 8.000.000 di armeni etnici a fronte dei circa 3 milioni in patria.
 
Queste diaspore si concentrano soprattutto nei tre paesi che co-presiedono il Gruppo di Minsk. In Russia, dove c’è la maggiore concentrazione numerica al mondo – 2.500.000 secondo quanto detto dallo stesso Vladimir Putin in un discorso recente – la comunità armena è ben integrata nelle ramificazioni del potere politico, economico e mediatico. In Francia, il paese che ospita la più estesa comunità di armeni etnici d’Europa e che vanta un legame storico-culturale secolare con l’Armenia precedente il Genocidio - apertamente riconosciuto dall’Esagono, e in memoria del quale esistono diversi monumenti nelle città principali – secondo le stime più alte la diaspora raggiunge le 700.000 unità. È indubbio che l’importanza numerica e qualitativa della minoranza armena abbia contribuito a plasmare l’atteggiamento francese verso il conflitto, attirandosi le critiche da parte di Baku e in particolare di Ankara, che tramite il proprio Ministro degli Esteri ha accusato Macron di essere “completamente schiavo dei circoli armeni domestici” e di ignorare “l’ascesa del fanatismo della diaspora armena” sul proprio territorio. Va detto che queste affermazioni seguono la decisione francese di rendere illegale l’organizzazione dei “Lupi Grigi”: un gruppo para-militare ultra-nazionalista panturco, organizzato internazionalmente ed estremamente violento, responsabile di attacchi brutali anche contro persone e monumenti della diaspora armena fuori dalla Turchia, che ne nega formalmente l’esistenza.

Le dinamiche geopolitiche francesi si correlano ulteriormente al conflitto tra Armeni e Azeri, nello scontro vis-a-vis l’assertività turca nel Mediterraneo e nelle turbolente dinamiche religiose interne attuali, in un quadro estremamente delicato da cui emerge però il dato inesorabile che la Francia è attualmente l’unico attore interno all’UE capace e intenzionato a far valere i propri interessi nazionali – e a volte, incidentalmente, europei - nell’area.

E infine negli Stati Uniti, e soprattutto nella California del Sud e a Los Angeles (epicentro della diaspora americana e occidentale), dove la comunità armena non solo è estremamente integrata, influente, mediamente benestante e spesso educata nelle migliori università, ma gode di una copertura mediatica sproporzionata rispetto alla propria consistenza numerica e inimmaginabile per nessuna comunità azera nel mondo. Si pensi ad esempio alla pop-star miliardaria americana di origini armene Kim Kardashian, figlia del famoso avvocato Robert Kardashian e moglie del rapper americano Kanye West, che si è schierata apertamente a favore della madrepatria e della Repubblica dell’Artsakh sulle sue pagine social – seguite da centinaia di milioni di persone.

Qualsiasi sia il peso che si vuole attribuire a una copertura così ‘pop’ del conflitto, le posizioni della Kardashian hanno raggiunto un’opinione pubblica per la maggior parte sostanzialmente scollegata se non completamente all’oscuro dal conflitto nel Caucaso o dall’esistenza del Nagorno-Karabakh. La pop-star ha donato un milione di dollari e contribuito a pubblicizzare una raccolta fondi che in poche settimane ne ha raccolti 100 milioni, in sostegno umanitario e infrastrutturale alla causa armena. Anche il gruppo rock armeno-californiano dei System of a Down si è riunito per pubblicare due singoli a sostegno dell’Armenia e raccogliere 600.000 dollari in pochi giorni; la band è formata da discendenti diretti di armeni superstiti del genocidio e guidata da Serj Tankian – amico personale e sostenitore pubblico di Pashinyan. 

Queste sono solo alcune delle manifestazioni più mediatiche della diaspora che in queste settimane si è mobilitata nelle piazze da Los Angeles a Beirut (spesso scontrandosi violentemente con le opposte mobilitazioni di comunità turche e azere), per sensibilizzare le opinioni pubbliche e influenzare le posizioni dei governi che le ospitano e per combattere quella che è soprattutto una battaglia di narrazione del conflitto e di riconoscimento internazionale. Alexander Galitsky, portavoce dell’Armenian National Committee of America, ha espresso chiaramente al The Guardian come, nella coscienza della diaspora armena, la ragione profonda della propria esistenza al di fuori dell’Armenia storica sia ‘una conseguenza diretta del Genocidio’ perpetrato dalla Turchia. Ne risulta che le diaspore armene, pur estremamente divise dalle successive differenti integrazioni culturali, dalle divisioni politiche o dal livello di allontanamento culturale-sentimentale dalla patria, siano fondamentalmente unite da un’identità storica costruita sul trauma della tragedia novecentesca: in questa narrazione e in questa autocoscienza inter-generazionale, la Turchia rappresenta un nemico ancestrale e quasi meta-storico, la guerra per l’indipendenza dell’Artsakh una per la propria sopravvivenza etnica, l’aggressione dell’Azerbaijan un proseguimento della volontà genocida turca. 
Seguendo quello che molti armeni della diaspora definiscono “il senso di colpa del sopravvissuto”, migliaia – talvolta anche giovani, studenti universitari e professionisti, che hanno visitato la propria madrepatria solo una volta – si sono riversati nella regione per arruolarsi in difesa della propria terra o per fornire qualsiasi forma di aiuto necessario.

La comunità armena internazionale, così come quella nazionale, ha accolto quindi con grande indignazione e disperazione quella che è sostanzialmente una resa del governo di Yerevan; ma è stato lo stesso Presidente della Repubblica dell’Artsakh ad ammettere – il 10 Novembre – che l’alternativa, il proseguo delle ostilità, avrebbe praticamente significato la perdita manu militari dell’intera regione nel giro di pochi giorni. La realtà, al di là di ogni proiezione patriottica e romantica, è che l’Armenia senza il convinto appoggio sul campo della Russia non aveva alcuna speranza di vincere militarmente contro un avversario più forte numericamente e qualitativamente, sostenuto in modo attivo da una potenza regionale e membro della NATO, e dotato di mezzi tecnologici all’avanguardia e di un’economia incommensurabilmente più grande da cui attingere. E che negli ultimi decenni ha saputo legare i propri interessi strategici, economici ed energetici a quelli di diversi attori internazionali. La tempestività e la mole di donazioni per sostenere l’Armenia rappresentano un caso di natura eccezionale, ma non potevano fare la differenza sostanziale sugli esiti di una guerra moderna che costa diverse decine di milioni di dollari al giorno ad ogni stato coinvolto. Per lo stesso motivo, moltissimi dei volontari che si sono presentati al fronte nel Karabakh sono stati respinti dalle stesse forze armate armene e separatiste, in mancanza di risorse per addestrare, equipaggiare e arruolare un così elevato numero di persone estremamente volenterose ma anche inesperte, inadatte anche per azioni di guerriglia, di resistenza asimmetrica. 

 Il dato effettivo è che nemmeno il soft-power della diaspora (pressione sugli organismi internazionali, attività di lobbying sul Congresso negli Stati Uniti, campagne di sensibilizzazione e mobilitazione nei paesi occidentali) è riuscito a concretizzarsi in un efficace asset strategico per l’Armenia, né impedendo una guerra che Yerevan non poteva vincere, né spingendo alcuna potenza a spendersi in modo credibile per difenderla una volta scoppiato il conflitto. È possibile che in futuro la sicurezza dell’Armenia e degli armeni in Artsakh dipenderà da un uso più strategico e pragmatico delle potenzialità della propria diaspora: ad esempio, utilizzando le conoscenze, la formazione, l’influenza e la ricchezza delle proprie comunità sparse per il mondo per creare interconnessioni sociali, economiche e politiche tra la madrepatria e i paesi ospitanti. Ciò favorirebbe lo sviluppo di un’economia più forte, più dinamica e legandola a doppio filo a quella di altri paesi, li spingerebbe concretamente a impegnarsi alla sicurezza dell’Armenia: più che fornire i mezzi economico-militari per vincere il conflitto, un processo del genere avrebbe potuto costruire degli incentivi geopolitici per non iniziarlo. 




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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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http://www.eu/ita/archivio/Il-soft-power-della-diaspora-armena-globale--unopportunita-strategica-mancata-di-Gabriele-Beretta-875-ITA.asp 2020-12-03 daily 0.5