L’Alto Karabakh tra guerra e pace (di Gabriele Beretta)

Nella notte tra venerdì 9 e sabato 10 ottobre si è tenuto un incontro, ospitato al Cremlino dal Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, che ha riunito per la prima volta dall’inizio dei combattimenti i rappresentanti di Armenia e Azerbaigian, il Ministro azero Bayramov e il suo omologo armeno Mnatsakanyan. L’evento, frutto di precedenti telefonate tra Putin e Aliyev e Pashinyan, aveva come scopo prioritario la ripresa dei negoziati al fine di interrompere – almeno temporaneamente - le ostilità e rendere possibile uno scambio bilaterale di prigionieri e caduti, ed è riuscito a produrre un accordo per il cessate-il-fuoco entrato in vigore a mezzogiorno di sabato.

Già durante la notte successiva – domenica 11 – missili armeni hanno colpito distretti residenziali di Gäncä, secondo centro urbano dell’Azerbaigian, uccidendo almeno 10 persone e ferendone molte di più. La notizia (fornita per prima da AFP) è stata riportata anche da diversi media e agenzie italiane ma è stata smentita dai vertici di Yerevan, che accusano invece la controparte di aver violato per prima l’accordo con bombardamenti sia su Stepanakert – capitale dell’Artsakh – che in territorio armeno, nonché con un’intensificata attività offensiva dei droni azeri. 

A poche ore dall’accordo Zaur Shiriyev, analista per l’International Crisis Group, aveva già espresso l’idea che il cessate-il-fuoco, in assenza di sostanziali passi avanti nei negoziati e di un ruolo proattivo dei mediatori internazionali, non avrebbe impedito la ripresa dei combattimenti nell’arco di pochi giorni. Da segnalare anche come l’incontro tra i vertici avvenisse in una cornice segnata dall’estrema diffidenza da parte armena e soprattutto da parte dei rappresentanti dell’Alto Karabakh sotto attacco, e dai toni intimidatori della controparte azera e dall’alleata Turchia, i cui massimi rappresentanti hanno utilizzato un linguaggio da ultimatum parlando di una “ultima occasione per l’Armenia”.

 Anche se la situazione diplomatica non sembra ancora compromessa irrimediabilmente, il processo attraverso cui si è giunti all’accordo mette in luce due elementi fondamentali, strettamente correlati. Il primo è la capacità diplomatica della Russia di far sedere allo stesso tavolo – in un vertice notturno e in tempi brevi – i rappresentanti dei due paesi, rispondendo ad un iniziale protagonismo della Turchia e affermando un’influenza nella zona con cui difficilmente possono competere gli altri attori coinvolti, tantomeno la bellicosa amministrazione turca. In qualche modo, compensando anche il ruolo ‘attendista’ che aveva assunto nelle precedenti settimane, in cui un formale appoggio all’alleato armeno non aveva comunque impedito di mantenere una certa equidistanza tra le parti e di richiamarle all’urgenza di una de-escalation. Più che a un momento di distrazione dovuto a problemi di politica interna (il caso Navalny) o alla situazione domestica in Bielorussia, Laurence Broers – analista presso la Chatham House – riconduce le scelte della Russia a considerazioni di natura prettamente strategica: da una parte un tentativo di bilanciamento tra i due paesi allo scopo di mantenere la propria immagine di potente mediatore esterno e di non compromettere le importanti e profonde relazioni con Baku, secondo uno schema complesso che si protrae ormai da diversi anni. Dall’altra, una deterrenza basata sull’incertezza con l’alleata Armenia, tesa a evitarne azzardi eccessivi e rischiosi – che potrebbero invece scaturire da un supporto incondizionato, come è successo tra Turchia e Azerbaigian – e allo stesso tempo ad aumentare la propria capacità di estrarre concessioni ed esercitare influenza, con l’intenzione – forse – anche di ‘disciplinare’ il governo di Nikol Pashinyan e le sue aspirazioni a una maggiore autonomia strategica da Mosca.

Il secondo elemento messo in luce dallo svolgersi degli eventi è la correlata e continua incapacità del Gruppo di Minsk di agire efficacemente nella prospettiva di una soluzione multilaterale e pacifica del conflitto. I co-presidenti del gruppo si sono incontrati l’8 ottobre a Ginevra e il 12 ottobre a Mosca, ma hanno sostanzialmente registrato la loro approvazione per ciò che era stato concluso trilateralmente tra Russia, Armenia e Azerbaigian, legittimando quindi il ruolo di ‘primus inter pares’ all’interno del Gruppo che la Federazione si è costruita negli anni. Sul versante statunitense, la caotica situazione politica, sanitaria ed elettorale domestica ha reso solo più evidente quello che è in realtà un processo di disimpegno dall’area di medio-lungo termine, che precede l’amministrazione Trump e che una eventuale presidenza Democratica di Joe Biden difficilmente potrà invertire radicalmente. La Francia, terzo paese che co-presiede il Gruppo all’OCSE ed unico rappresentante di un’Unione Europea altrimenti completamente assente e ininfluente, ha richiamato fin da subito alla necessità di porre fine alle ostilità e di cercare una soluzione multilaterale. Contemporaneamente, il Presidente Emmanuel Macron ha accusato in diverse occasioni la Turchia di avere un ruolo preponderante nell’inasprimento e nell’ internazionalizzazione del conflitto nel Caucaso Meridionale, citando oltre alla retorica aggressiva anti-armena e al sostegno incondizionato agli azeri, la ormai comprovata presenza di mercenari e para-militari islamisti reclutati da Ankara e trasportati nel territorio dell’Alto Karabakh, sui cui cieli Ankara ha dispiegato anche un significativo numero di droni e F-16. Ma la presa di posizione del governo di Macron – che si trova su barricate opposte alla Turchia in Libia, dove Parigi appoggia il governo di Haftar in Cirenaica – ha suscitato tensioni anche con Baku, da sempre diffidente dell’imparzialità della Francia nella quale vive una numerosa e influente comunità armena. Il presidente Aliyev ha rinnovato questa preoccupazione, definendo le dichiarazioni francesi come il caso più eclatante di un inaccettabile squilibrio a favore delle posizioni dell’Armenia all’interno della co-presidenza, e chiedendo invece l’inclusione della Turchia, in un discorso alla TV azera in cui definiva quello armeno uno ‘stato fascista e terrorista’.

La proposta di includere Ankara al tavolo negoziale e al vertice del Gruppo di Minsk, su cui insistono da giorni vertici e media sia azeri che turchi, rappresenta ovviamente un anatema inaccettabile agli occhi di Yerevan, e difficilmente porterà alcun frutto al processo di pace. La strategia turco-azera più probabilmente è quella di testare la reattività e le intenzioni degli altri attori, cercando di conquistare terreno e quindi forza contrattuale prima di tornare a Mosca o Ginevra a trattare; è evidente che lo status quo attuale, con le forze armene che controllano de facto da tre decenni ampie zone internazionalmente riconosciute come territorio dell’Azerbaigian, non gioca a favore di Baku. Ma in assenza di una prospettiva concreta di pacificazione duratura, questa strategia rischia di innescare un piano inclinato verso una irreversibile recrudescenza del conflitto, avvelenato dalla presenza di mercenari e guerriglieri non totalmente controllabili dall’esercito azero e da una – reciproca - retorica da ‘guerra per la sopravvivenza’.

 L’unica prospettiva per una soluzione del conflitto nel medio-lungo termine, qualunque sia la formula diplomatica che verrà utilizzata, sembra passare per una qualche rielaborazione delle priorità già espresse nei Principi di Madrid divulgati pubblicamente dalla co-presidenza nel 2009. L’Azerbaigian difficilmente riterrà credibile e costruttiva qualsiasi proposta che non comporti un ritiro programmato delle forze armene dai territori occupati che circondano il Karabakh – merce di scambio preziosa in mano a Yerevan; di contro, l’Armenia non prenderà in considerazione l’ipotesi di un ritiro senza un pacchetto di garanzie solide sulla tutela degli insediamenti armeni nella regione, sulla sicurezza prima ancora che sul diritto all’autonomia dell’Artsakh e sulla creazione di un corridoio sanitario di sicurezza tra quest’ultimo e l’Armenia, evitando ciò che gli armeni vedono come una pericolosa ‘enclavizzazione’. Niente di ciò può avvenire in assenza di una partecipazione attiva di garanti internazionali (l’OCSE, l’ONU o una qualche combinazione credibile di attori regionali) che si occupi di monitorare il rispetto delle condizioni e delle tempistiche di eventuali accordi, con la capacità – anche militare con operazioni di peacekeeping se necessario – di renderli effettivi. Una missione internazionale di questo calibro potrebbe essere anche l’unica possibilità per programmare e realizzare un ritorno alle proprie abitazioni degli azeri sfollati da decenni dal Karabakh e dai territori circostanti occupati, un tema che tocca corde e ferite profonde nella narrazione nazionale di Baku e che coinvolge, secondo stime dell’UNHCR, più di 500.000. 

Eventuali progressi in queste aree sembrano la pre-condizione per potere discutere dell’elemento più controverso, più divisivo e più difficile da districare: lo status futuro del Karabakh, alla cui soluzione servirà un difficile compromesso tra i due principi fondamentali dell’autodeterminazione del popolo dell’Artsakh e dell’integrità territoriale dell’Azerbaigian. Finora le parti sono state restie a concedere sulle questioni citate per timore che compromessi iniziali possano influire a loro svantaggio su questo elemento finale. Per questo serve una soluzione graduale e incrementale, al posto di un unico pacchetto che metta assieme tutti gli elementi critici – il ritiro delle truppe, la sicurezza degli insediamenti, la conformazione e i compiti della missione internazionale e lo status del Karabakh – o che addirittura parta a ritroso da quest’ultimo: il più capace ovviamente di smuovere sentimenti nazionalistici e attenzione internazionale ma a partire dal quale sembra improbabile iniziare alcun dialogo costruttivo. Occorre però una strategia in grado di superare gli ostacoli come quello sopracitato, che possa slegare le varie questioni alla base del conflitto e permettere ai due paesi di costruire compromessi duraturi, incentivando concessioni specifiche e delineate e rendendo ogni accordo autonomo dal successivo. In questo modo si potrebbe ridurre il senso di intrappolamento e aumentare la propensione a concedere delle parti, attualmente inficiata anche da un’opinione pubblica intransigente che i governi hanno contribuito colpevolmente ad infiammare.




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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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http://www.eu/ita/archivio/LAlto-Karabakh-tra-guerra-e-pace-di-Gabriele-Beretta-861-ITA.asp 2020-11-02 daily 0.5