L’Asia Centrale guarda con timore alla crisi in Bielorussia (di Pierluigi Franco)

L’Asia Centrale guarda con crescente apprensione alle vicende che fanno traballare la Bielorussia di Alexandar Lukashenko dopo le contestate elezioni presidenziali del 9 agosto scorso. Un’apprensione giustificata da diversi fattori. Anche se distanti per geografia  e cultura, infatti, la Bielorussia e le repubbliche dell’Asia Centrale hanno molto in comune. Innanzitutto sono nate come repubbliche indipendenti nello stesso periodo, all’inizio degli anni ’90, con la disgregazione della loro casa madre Unione sovietica, anche se la loro comunanza storica è ben più lontana se si pensa all’immenso impero della Russia zarista ereditato successivamente dall’Urss. C’è poi il fatto che tutte queste nuove repubbliche hanno avuto un percorso “presidenziale” pressoché simile, con esponenti dell’ex Pcus riciclati e diventati potenti uomini di Stato con dominio praticamente assoluto.

Se Lukashenko è al potere ininterrottamente dal 1994, bisogna ricordare i 28 anni di comando di Nursultan Nazarbaiev in Kazakistan, i 25 anni di presidenza di Islom Karimov in Uzbekistan, interrotti soltanto dalla sua morte nel 2016, e la carica presidenziale da record di Emomali Rahmon, ai vertici del Tagikistan dal 1992. E se Lukashenko ha aperto la strada politica anche al figlio Viktor, importante componente del Consiglio di sicurezza nazionale della Repubblica di Bielorussia, Rahmon non è da meno avendo fatto eleggere sindaco di Dushambe il figlio, Rustam Emomali, in probabile preparazione di una programmata successione. Ancora non da meno appaiono i ruoli delle figlie di Nazarbaiev e Karimov che hanno operato tra politica e affari accumulando immense ricchezze, anche se con alterne fortune.

Comprensibili, dunque, i timori che investono i vertici delle repubbliche centrasiatiche che guardano con attenzione quanto accade a Minsk. Timori ancor più comprensibili se si pensa al ruolo sempre più importante che i social network hanno nelle proteste e nel loro dilagare, anche per la facilità di infiltrazioni e pilotaggi di opinioni e di azioni da ogni angolo del mondo. Ormai i confini non fermano nessuno e, per questo, non basta più neppure un attento sistema di controllo interno.

In questo quadro si affacciano le imminenti elezioni presidenziali in Tagikistan che, l’11 ottobre, si apprestano a riconfermare Rahmon per la quinta volta. Le ultime elezioni si erano tenute nel 2013 e Rahmon aveva vinto con l’84% dei consensi. Un voto ritenuto non limpido dagli osservatori internazionali, come era stato d’altra parte anche per le precedenti elezioni.

Anche il Kirghizistan è chiamato al voto il 4 ottobre per eleggere il nuovo Parlamento. Si tratta di elezioni incerte dopo che, a campagna elettorale già avviata, è stato a sorpresa riammesso il partito di opposizione Butun Kirghizistan (Kirghizistan unito) che era stato precedentemente escluso.

In entrambi i Paesi, ovviamente, gli apparati di sicurezza sono stati attivati con il massimo dell’attenzione.
Intanto le Forze armate degli Stati centrasiatici si preparano a partecipare proprio in Bielorussia, dal 12 al 16 ottobre, alla grande esercitazione militare dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO) denominata, forse non a caso, “Fratellanza infrangibile”: un chiaro segnale, secondo qualcuno, un’esercitazione programmata, secondo altri.

LA CSTO costituisce in ogni caso un altro importante legame tra le repubbliche dell’Asia Centrale e Minsk, trattandosi di una alleanza militare che fa capo a Mosca e coinvolge le Forze armate di Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Armenia e Tagikistan.

Anche su altri fronti, però, l’asse tra Bielorussia e Paesi centrasiatici è forte grazie alla partecipazione alla Comunità degli Stati Indipendenti (Csi), organizzazione internazionale con sede a Minsk e composta da dieci ex repubbliche sovietiche (Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia, Russia, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan). Il doppio filo con Minsk si ripropone anche nell’Unione economica eurasiatica (Uee), che coinvolge il ricco Kazakistan e il Kirghizistan oltre a Bielorussia, Russia e Armenia.

Per molti osservatori, in ogni caso, la situazione esplosa in Bielorussia sembra più un attacco a Mosca che a Minsk. Di certo Vladimir Putin non può permettere che accada ciò che è avvenuto in Ucraina; per questo ha garantito il massimo appoggio a Lukashenko anche se i loro rapporti non sono sempre stati ottimali. Facile pensare che l’appoggio di Mosca non sarà a costo zero. Magari, per salvare il salvabile, potrebbe ripresentarsi l’ipotesi di una Bielorussia federata con la Russia. Questo faciliterebbe il controllo del Paese, blindandolo al fine di evitare un possibile distacco dalla storica orbita di Mosca come già avvenuto per Kiev. Senza perdere d’occhio l’Asia Centrale e le complesse strategie americane e cinesi che pure preoccupano il Cremlino.




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