L’Emirato Islamico dell’Afghanistan ed i rapporti con le repubbliche centro-asiatiche (di Michele Brunelli)

Il grande complesso geopolitico rappresentato dall’Asia Centrale è stato per lunghissimo tempo considerato nella sua uniformità un qualcosa di tanto omogeneo, uniforme, quanto oscuro, sconosciuto. Forse perché rimasto per lungo tempo ai margini della storia occidentale, almeno per la narrativa eurocentrica o generalista. Solo durante il XIX secolo, quando fu al centro di una contesa geopolitica che vide l’Impero britannico opporsi a quello zarista iniziò a destare un certo interesse, sebbene solo per una ristretta cerchia di politici, strateghi e studiosi, ma anche per mercanti ed imprenditori. Una contesa la cui importanza primariamente geopolitica, poi anche economica aveva reso i territori dell’Asia Centrale, ai tempi ancora sconosciuti, territorio di conquista, non solo militare, ma anche culturale. Ci fu allora una vera e propria corsa all’esplorazione della regione, che vide opporsi geografi, che nel contempo erano militari, ma anche spie ed avventurieri al soldo dell’una o dell’altra corona, tantoché il periodo è conosciuto in Russia con il termine di Torneo delle Ombre e, in occidente, soprattutto in Gran Bretagna, invece, come il Grande Gioco. Un termine, quello di Great Game, ancora ampiamente utilizzato oggi e che, forse, non a caso, ricorda uno dei più antichi giochi di strategia, nato e poi sviluppatosi ai margini di questo grande conglomerato geopolitico: il catur aṅga (lett. i quattro ranghi). Era l’antesignano degli scacchi che i Persiani chiamavano Shaṭranj, dei quali il grande poeta Firdūsī ci dà una importante testimonianza nel suo Shāh-Nāmeh, poema epico scritto a cavallo dell’anno Mille e tuttora celebrato, grazie all’enorme influenza culturale che tale opera ebbe, oltre che nel moderno Iran, in Afghanistan, in parte della Transcaucasia e nell’Asia Centrale, in particolare in quei territori che furono parte costitutiva del khanato turcico-musulmano karakhanide. C’è quindi più di un filo rosso che collega le varie aree centro-asiatiche con le sue periferie (dall’India al Grande Iran: il “continente culturale iraniano”) e, da qui, ai vecchi attori geopolitici, ora decaduti, come l’Europa, a quelli tradizionali (Russia), ai nuovi (Stati Uniti), così come agli attori emergenti (Cina). 

Oggi sempre più sembra dare concretezza fisica al concetto teorico elaborato da Mackinder nel 1904 di Heratland il cuore della Terra, il cui controllo consentirebbe il predominio politico dell’Eurasia. Ed in effetti la sua importanza strategica emerse in tutta la sua tragicità all’indomani dell’implosione dell’Unione Sovietica, di cui si è appena ricordato il trentennale, divenendo nuovo terreno di conquista economico-militare da parte dell’unica superpotenza sopravvissuta alla Guerra Fredda. I tentativi di consolidamento statuale, sostenuti da economie non ancora pienamente consolidate, incapaci di uscire dal modello di rentier State, hanno prodotto autocrazie, la cui stabilità oggi, potrebbe tuttavia essere messa a rischio da fattori endogeni, così come è recentemente avvenuto in Kazakhstan, o esogeni. Di questi ultimi l’Afghanistan rappresenta certamente un potenziale fattore di instabilità per l’intero sistema regionale, sia per la sua situazione politica interna, sia per la base della sua economia, anch’essa da Stato redditiere, basata però non sull’assai diffuso e preminente settore degli idrocarburi, ma di quello dell’oppio. 

Dopo un ventennio circa di oblio da parte dei media e quindi anche della società civile occidentale, l’Afghanistan è preponderatamene tornato agli onori della cronaca il 15 agosto del 2021, dopo la fuga precipitosa del presidente Ashraf Ghani in Uzbekistan e la conseguente (ri)presa di Kabul da parte delle forze talebane. V’erano stati in realtà alcuni fatti che se meglio contestualizzati ed analizzati avrebbero potuto far presagire un eventuale ritorno al potere del fondamentalismo. Tra questi, i colloqui intercorsi tra Stati Uniti e rappresentanti dei Talebani – escludendo quindi i rappresentanti ufficiali del governo in carica – tenutisi in Qatar nel 2020 e perfezionatisi nel cosiddetto Accordo di Doha, che contemplavano tre specifiche condizioni: la cessazione degli attentati terroristici nel paese; l’impegno di non consentire a gruppi terroristici esogeni di utilizzare nuovamente l’Afghanistan come loro territorio-santuario ed iniziare i colloqui con quelli che i Talebani giudicavano i “fantocci dell’America”, ovvero i membri del governo in carica. Tutto ciò in cambio del ritiro delle truppe NATO dal 2001 stanziate nel paese. 

Un accordo del tutto favorevole ai Talebani, che da sempre avevano promesso la pacificazione dell’Afghanistan qualora fossero tornati al potere, ma anche favorevole all’attuazione dello slogan trumpiano America first, la sicurezza statunitense prima di tutto, concretizzatasi dal fatto che i Talebani non hanno mai condotto attacchi terroristici al di fuori dal loro paese e consolidata dalla “promessa” di non consentire il radicamento di gruppi estremisti sul suolo afghano. Il che poteva dare il via libera alla decisione unilaterale del rituro delle forze statunitensi dall’area, vantandosi di aver adempiuto al mantra delle ultime amministrazioni USA, da Bush jr in poi: mettere in sicurezza gli Stati Uniti.
Dall’agosto del 2021 non si è aperta una nuova era per l’Afghanistan, ma, come i corsi e ricorsi storici di vichiana memoria, il paese, paradossalmente – almeno agli inizi – meno colpito dagli attentati, si sta consolidando come un focolaio di instabilità per l’intro sistema regionale. 

Sembra essere calzante per l’Afghanistan la definizione di “buco nero geopolitico” e non solo per la continua e perenne violazione dei diritti fondamentali e basilari, soprattutto delle donne, ma per la sua capacità di attrarre all’interno del proprio disordine gli Stati e le nazioni ad esso limitrofi, ovvero di contagiare il suo near abroad con gli stessi fattori di instabilità che caratterizzano il paese stesso. E così, seppur oggi l’Afghanistan possa contare su un governo centrale, che esercita la sovranità sulla quasi totalità del territorio, molte sono le vulnerabilità sistemiche che potrebbero potenzialmente intaccare la stabilità sia interna, che regionale.

Un primo sentore lo si ha avuto all’indomani della caduta di Kabul, con migliaia di profughi che hanno iniziato a premere sui confini irano-pakistani, paesi tradizionalmente rifugio sin dai tempi dell’invasione sovietica del 1979. Secondo fonti delle Nazioni Unite il maggior numero dei rifugiati afghani è proprio concentrato in questi due paesi: 1,4 milioni in Pakistan e 780.000 in Iran,  rispettivamente il 51% ed il 28% dei richiedenti asilo, sebbene si stimi che nella Repubblica Islamica vivano clandestinamente altri 2,6 milioni di afghani.  Dalla presa del potere dei Talebani, in pochi mesi si sarebbero riversati nel vicino Iran oltre 300.000 profughi, rischiando di mandare al collasso il sistema di accoglienza di Teheran. 

L’ennesima ondata migratoria causata dall’avvento del nuovo Emirato Islamico ha indotto i paesi del suo confine settentrionale, Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan a chiudere le loro frontiere. Segno, da un lato di voler limitare l’impatto dei flussi migratori sulle proprie zone di confine, dall’altro un gesto di compiacenza verso i nuovi signori di Kabul, avvicinati sin da subito dal console turkmeno a Mazar-i-Sharif, in un incontro definito dal Ministro degli Esteri di Ašgabat Raşit Meredow “positivo e costruttivo”, per sottolineare la natura fraterna delle relazioni tra i due paesi. Una relazione di lungo corso con i Talebani, più che con lo stesso Afghanistan, e comunque sempre più febbrile anche nei mesi precedenti la caduta del governo filo-americano di Ashraf Ghani. 

Nel mese di febbraio del 2021 ci fu un importante incontro tra il Ministero degli Esteri turkmeno e la delegazione dell’Ufficio Politico dei Talebani, guidata dal Mullah Abdul Ghani Baradar, figura di spicco nel panorama non solo politico, ma anche fondamentalista-militante dei Talebani,  per discutere di progetti infrastrutturali, quali il gasdotto Turkmenistan–Afghanistan–Pakistan–India (TAPI), il Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan. (TAP) Natural Gas Pipeline TAP e la via ferroviaria tra i due paesi. Significativa la dichiarazione ufficiale dei Talebani, dall’autentico sapore strategico e lungimirante, quasi a ribadire l’inevitabilità della rifondazione dell’Emirato Islamico a scapito della Repubblica nata nel 2001: 
On the one hand, while we are struggling to gain independence of our country, meanwhile, we are trying to contribute to prosperity of our people and development of our country by providing protection to all national projects in the country. In this regard, as the Islamic Emirate of Afghanistan, we declare our full support for the implementation and security of TAPI and other developmental projects in our country.  

Eppure, con il governo precedente, Ašgabat voleva fare delle relazioni tra i due paesi un modello di cooperazione economica regionale attraverso la stipula di una serie di accordi bilaterali che riguardavano la lotta al terrorismo ed al radicalismo attraverso la riduzione della povertà, che in Afghanistan, interessa ormai il 97% della popolazione.  Povertà che dai due paesi viene indicata tra le leve primarie utilizzate dai diversi gruppi estremisti per il reclutamento di giovani, per lo più disoccupati e quindi più permeabili alla propaganda jihadista. Il cambio di potere a Kabul non ha minimamente intaccato le relazioni dei due paesi. La piattaforma su cui collaborare è rimasta la stessa, con l’incognita dell’impegno che prima rappresentava un pilastro della cooperazione, quello contro il fondamentalismo, che ora, può essere messo in disparte o, più prosaicamente, ignorato. L’obiettivo ultimo rimane quello di porre rimedio alla gravissima crisi economica che sta investendo l’Afghanistan, dovuta da un lato all’incapacità di gestire questi aspetti da parte della nuova compagine governativa, dall’altro perché l’economia afghana, almeno negli ultimi decenni, è sempre dipesa, nella sua totalità, da aiuti internazionali.

Il Ponte dell’Amicizia (Dustlik bridge), che collega il territorio afghano al confinante Uzbekistan è più di un simbolo: è il mito della sconfitta sovietica da quando il 15 febbraio del 1989 il Generale Gromov lo attraversò per completare il ritiro dalla disastrosa campagna iniziata un decennio prima. Oggi è ancora un importante punto di transito per quei 160 km di confine tra i due Stati, ma soprattutto può rappresentare un possibile nuovo emblema per la rinascita economica dell’Afghanistan, quale porta di ingresso delle merci provenienti dall’Europa e dall’Asia. Anche per le relazioni tra Kabul e Taškent, così come con Ašgabat, pare valere il principio della massima “business is business”. Non importa chi ci sia al potere, l’essenziale è continuare a fare affari con chi gestisce il potere. Ed anche in questo caso, l’Uzbekistan, rivitalizzando i diversi progetti infrastrutturali pianificati nell’ultimo ventennio, è pronta a dialogare con i Talebani, in base ad una stratega win-win. Come sottolineato in precedenza, l’Afghanistan ha, ora più che mai la necessità di fare leva sui paesi amici – anche solo per convenienza – per cercare di dare sollievo alla grave crisi socio-economica che, paradossalmente, essi hanno contribuito ad aggravare. Oggi Kabul è fortemente dipendente dai paesi limitrofi per l’energia elettrica: ne importa il 73%: di questo l’Uzbekistan è il suo principale fornitore (57%), seguito dall’Iran (22%), dal Turkmenistan (17%) e dal Tajikistan (4%).  

Nell'agosto 2020, Kabul e Taškent firmarono un accordo decennale per la fornitura di elettricità: indispensabile per lo sviluppo afghano, necessario per l’economia uzbeka. Il problema è oggi mantenere fede all’accordo, soprattutto da parte talebana, la quale si trova senza liquidità per poter onorare i patti. Ecco quindi che gli stessi Talebani usano la loro potenziale insolvenza affinché i paesi limitrofi facciano pressione sulle istituzioni finanziarie internazionali al fine di sbloccare gli asset finanziari afghani presso le banche straniere. Oltre alla fornitura di energia, l’Uzbekistan un importante tramite per il commercio internazionale. 

Nel febbraio 2021 il paese ha siglato un importante accordo con il Pakistan per la realizzazione di un nuovo tronco della ferrovia sull’asse Mazar-e-Sharif – Kabul – Peshawar. Una direttrice fondamentale che permette al cuore dell’Asia Centrale di arrivare direttamente in Afghanistan, così come all’Uzbekistan di avere un accesso ai porti del Mar Arabico. Al di là della valenza economico-commerciale, questo troncone riveste anche una importanza strategica per il Pakistan, il quale, in caso di conflitto con l’India, oggi più che mai con i Talebani a Kabul, potrebbe sfruttare l’Afghanistan quale retrovia strategica ed attraverso questa importante ferrovia, ritirarsi o far affluire nuovi combattenti verso l’eventuale fronte, acquisendo un importante retroterra strategico. Quello tra Uzbekistan e Afghanistan lo si potrebbe quindi definire un rapporto di mutua convenienza, suggellato da buoni rapporti, oggi più che mai. Ciò tuttavia non significa un aperto sostegno, né accondiscendenza alla politica dei Talebani, ma l’approccio tenuto da Taškent è puramente pragmatico. Troppi, infatti, sono stati gli investimenti infrastrutturali fatti nell’ultimo ventennio, molti dei quali ruotano attorno alla centralità geografica dell’Afghanistan. Non dialogare con i nuovi capi di Kabul significherebbe rendere vani gli sforzi economica degli ultimi cinque lustri.

Il ventre molle delle alleanze con i paesi dell’Asia Centrale confinanti con l’Afghanistan è rappresentato dal Tajikistan. Alla base vi sono ovviamente fratture di carattere etnico, che alimentano non solo il clima di reciproco sospetto, ma minano potenzialmente la parvenza di stabilità regionale, sempre precaria negli ultimi anni, a causa dell’attrattività esercitata dai Talebani verso gruppi estremisti e dai dissesti causati dal narcotraffico, ma anche da potenze locali con velleità regionali, quali il Pakistan che da sempre sostiene in Pashtun, anche in funzione anti-indiana e, viceversa, Nuova Delhi che sostiene i Tagiki, in funzione anti-pakistana. D’altro canto, sin dai tempi di Aḥmad Shāh Masʿūd, il Shir-e Panjshir tagiko (il Leone del Panjshir) è stato l’unico vero oppositore interno dei Talebani, capace di contrastare i combattenti dell’ Ḥezb-i Islāmī, il Partito Islamico, di Gulbuddīn Hekmatyār, sostenuto dal Pakistan, facendo prevalere Burhanuddin Rabbani, sotto il cui Governo divenne ministro della Difesa, sino alla sua morte, nel 2001. Anche se il figlio Aḥmad Massoud tra l’agosto ed il settembre 2011 tentò di emulare le gesta del suo nobile padre, non è mai riuscito ad organizzare una opposizione militare in grado di contrastare l’avanzata talebana, né a costituire un’alternativa politica al nuovo regime, dovendo quindi riparare in Tajikistan, dopo una serie di sconfitte subite. 

I Talebani considerano il Tajikistan un vicino pericoloso, a tratti ostile, così come Dušanbe considera i nuovi dominatori di Kabul una minaccia. Giudizio reiterato dal Presidente tagiko Emomalī Rahmon nel suo discorso alla 76a Sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del settembre 2021, durante il quale ha affermato che:

The rise to power of the Taliban, which is listed as a terrorist group by the United Nations Security Council, has further complicated the region’s already complex geopolitical process. The Taliban’s failure to deliver on its earlier promises to form a comprehensive government with the broad participation of Afghan political and ethnic forces is a matter of serious concern. 

Rahmon è arrivato anche a definire la situazione umanitaria in Panjshir, terra a maggioranza tagika, una catastrofe, le cui colpe devono ricadere sotto la responsabilità del nuovo regime e sottolinea di come i potenziali conflitti interetnici mettano, ancora una volta, a rischio la sicurezza regionale. Ma l’aspetto forse più significativo del discorso di Rahmon, in controtendenza con le promesse talebane fatte a Doha e con le rassicurazioni che parte del governo di Mohammad Hassan Akhund dell’Emirato Islamico continua a ripetere, riguardano le preoccupazioni, che: “Afghanistan is once again on the path to becoming a breeding ground for international terrorism”,  come ha sottolienato in una non troppo celata accusa il presidente tagiko. La minaccia terroristica è particolarmente sentita in Tajikistan, anche a causa del suo recente passato, che l’ha visto teatro di alcuni attentati. In realtà questi non sono ascrivibili alle attività delle milizie talebane, bensì ad altri gruppi tra i quali Hizb ut-Tahrir (Partito della Liberazione), organizzazione panislamista particolarmente attiva nel primo decennio del 2000 e solo tangenzialmente pro-talebana, nella misura in cui si schierò con essi contro “i due nemici dell’Islam e dei Musulmani, America e Gran Bretagna, [perché] conducono una guerra ingiusta contro il popolo afghano, povero e indifeso”.  

Era tuttavia il 2001 e, negli ultimi due decenni, tutto è cambiato: il Partito della Liberazione, seppur si sia dimostrato attivo in varie parti de mondo, data la sua aspirazione pan-islamista, oggi è in forte declino e dopo una sua comparsa sul fronte siriano ha ormai un ruolo marginale nel più ampio contesto del terrorismo estremista. Ad oggi non sembra essere funzionale agli interessi Talebani, e quindi appare assai improbabile una possibile alleanza tra i due gruppi in chiave anti-tagika, non solo per l’inattività del Partito, ma soprattutto per la concezione ideologica che li caratterizza: pan-islamista uno, prettamente locale, volto a consolidare un emirato afghano, l’altro.

Ed è proprio su queste premesse ideologiche che l’Afghanistan talebano entra in conflitto con il sedicente Stato Islamico. Da sempre le aspirazioni degli “studenti”, i ṭālebān, sono di realizzare un Emirato sulla terra dei loro padri, conforme alle regole della sharīʿa, in rispetto ai precetti di un Islam puro, delle origini, scevro da ogni contaminazione cui è andato incontro nel corso dei secoli, in quel processo simbiotico che l’ha reso in diverse altre parti del mondo multiforme, poiché risente delle tradizioni culturali, religiose e popolari di quei territori cui è andato a sovrapporsi e a primeggiare. Ma soprattutto, sebbene non apertamente dichiarato, l’Emirato islamico ha in sé un approccio etno-nazionalistico, fortemente sbilanciato verso i Pashtun, il che provoca un alto livello di sfiducia e di odio tra gruppi etnici e religiosi che compongono il complesso mosaico afghano. 

V’è quindi alla base di questa loro una visione sincretica deobandi e wahhabita dell’Islam – le due anime puriste dell’Islam – intrisa però di un certo senso nazionalista, che infatti li ha indotti ad organizzare una sequela di attentati, che corre lungo tutto il ventennio di presenza della NATO in Afghanistan, che hanno riguardato in maniera pressoché esclusiva il territorio afghano, mai obiettivi al di fuori di esso o sui territori dei paesi percepiti come invasori. Ciò lascia pertanto supporre che anche il nuovo governo in carica si atterrà a questa linea, attento ora più che mai alla necessità di dover ineluttabilmente consolidare il proprio potere interno e garantire la sicurezza dei cittadini afghani. Una promessa, questa, rilanciata nelle fasi immediatamente precedenti la riconquista del territorio e la caduta di Kabul, per far leva sul senso di insicurezza che ormai era profondamente radicato nella società afghana (a causa, ovviamente delle azioni terroristiche portate avanti dai Talebani) e per far sì che i Talebani stessi potessero essere visti – forse illusoriamente – come i pacificatori del paese. Come coloro i quali, attraverso l’applicazione pura di un Islam delle origini, potessero cancellare lustri di anarchia e ristabilire l’ordine. Un ordine politico, ma soprattutto morale, prodromico ad un ordine securitario.

È per tali motivi che oggi sembra alquanto improbabile che i Talebani si possano spingere ad utilizzare la strategia del terrorismo verso i paesi limitrofi e quindi a produrre un allargamento della conflittualità al sistema regionale. La priorità del governo è di consolidare il proprio potere sul territorio, anche attraverso l’imposizione di norme e regolamenti in aperta violazione con i diritti universali, ma soprattutto di far fronte ad una gravissima crisi economica che attanaglia la quasi totalità del paese, e che colpisce maggiormente le ampie aree rurali-montagnose dell’Afghanistan. È quindi interesse fondamentale di Kabul, ora come ora, cercare di ripristinare una economia di base, riattivare il sistema economico-finanziario e provvedere ai fabbisogni primari della popolazione, per non doversi trovare a fronteggiare una fronda interna che minaccerebbe il loro stesso potere.

Questa fragilità sistemica interna è minacciata ancora una volta dal terrorismo, ora, ovviamente non più di matrice talebana, ma dell’altro grande attore estremista che opera anche in quest’area, rappresentato dalle frange sopravvissute di Dāʿish, battuto militarmente nell’area del cosiddetto Syraq, ma mai sconfitto ideologicamente. Tra i suoi epigoni lo Stato islamico dell'Iraq e del Levante - Provincia di Khorasan (ad-Dawlah al-Islāmiyah fī 'l-ʿIrāq wa-sh-Shām – Wilayah Khorasan), giornalisticamente conosciuto con il suo acronimo di ISIS-K, tornato alla ribalta dei media e dell’attenzione internazionale all’indomani della presa del potere dei Talebani per gli attentati sanguinosissimi organizzati contro il nuovo regime. Attivo dal 2015, quando il suo leader Hafiz Saeed Khan giurò fedeltà ad Abu Bakr al Baghdādī, il quale lo nominò primo emiro di questa regione,  può contare su una milizia di circa 1.500-2.000  combattenti ed ha colpito obiettivi in Pakistan e soprattutto in Afghanistan.

Oltre a rappresentare una minaccia per l’attuale governo afghano, è il riferimento geografico della sua denominazione a destare preoccupazioni a livello regionale. Il Khorasan, o meglio il Khorāsān bozorg, il Grande Khorasan, è quell’antica macro-regione centro-asiatica che ricomprende, oltre all’Iran e l’Afghanistan, anche il Tajikistan, l’Uzbekistan ed il Turkmenistan. Qualora ISIS-K non dovesse soccombere alle forze talebane e riuscisse a rafforzarsi attraverso la creazione di una regione-santuario, potrebbe costituire un polo importante di aggregazione per le ormai disperse forze di Dāʿish e da qui minacciare i paesi appartenenti a questa antica regione, nel tentativo di fondare un nuovo emirato, non su base specificatamente territoriale o nazionale, bensì dalla natura pan-islamica, così come voleva che fosse il Califfato di al-Baghdādī. Ad onor del vero oggi questa appare essere una possibilità assai remota, poiché i Talebani sembrano determinati ad eliminare la minaccia, sebbene ISIS-K continui a rappresentare una quinta colonna che potrebbe essere alimentata da altri gruppi anti-talebani.

Più concreta la possibilità invece che l’Afghanistan torni ad essere un hub per il terrorismo internazionale, così come sottolineato dal Presidente Rahmon. Ciò dipenderà da che fazione interna al governo talebano riuscirà a prendere il sopravvento. All’interno della compagine di potere sono andate perfezionandosi due correnti distinte: l’una, integralista, facente capo al potente network Haqqani, da sempre collegato con al-Qaeda e grande intermediario dei principali traffici frontalieri con il Pakistan, sin dai tempi dell’invasione sovietica, quando era il collettore di armi e danaro proveniente dagli USA, dall’Arabia Saudita e dall’Egitto, oltre che da Islamabad. Sono i propugnatori di una linea dura ed autarchica, per nulla interessati ad ottenere un riconoscimento internazionale, ma in caso di necessità, tornare a fare affidamento sui gruppi estremisti e fondamentalisti, loro vecchi alleati. Oggi, questi, guardano con sospetto anche il governo pakistano, per il fatto che molti di essi in passato sono stati arrestati dai servizi segreti di Islamabad, l’Inter-Services Intelligence (ISI) e perché il suo direttore, il Generale Faiz Hameed, durante le fasi di formazione del governo afghano, aveva fatto pressioni per un governo più inclusivo, che fosse formato anche da musulmani sciiti ed aperto alle donne. Una ingerenza eccessiva per gli integralisti, che hanno rigettato il suggerimento.

L’altra fazione si compone di un gruppo di “responsabili”, guidata dal vice-primo ministro Abdul Ghani Baradar, conscio che senza un riconoscimento e quindi un’apertura verso l’estero, il paese sia destinato al collasso economico e quindi alla crisi umanitaria, il che comporterebbe una difficile gestione del potere, così come del controllo del territorio. L’accordo verbale preso ad agosto dai Talebani con la comunità internazionale “rispetto dei diritti vs aiuti economici” è stato costantemente violato e ora spetta a questa fazione cercare di compensare gli otto miliardi di dollari di importazioni, necessari alla sopravvivenza del paese, con gli introiti derivanti per lo più dall’economia criminale dell’oppio ed altre attività illecite, il cui ammontare è stimato dalle Nazioni Unite tra i 300 milioni e l’1,4 miliardi di dollari annui.  Ma soprattutto dovrebbero cercare di sbloccare i 9 miliardi di dollari di riserve valutarie depositate presso la Federal Reserve di New York, per far fronte alla crisi di liquidità. Baradar può contare anche sull’appoggio di Sher Muhammad Abbas Stanikzai, il vice-ministro degli Esteri, anch’egli favorevole alla creazione di uno Stato più inclusivo. Negli ultimi mesi l’attività diplomatica si è fatta febbrile e nell’ottobre 2021 sono iniziati i primi contatti anche con il Kazakhstan ed il Kyrgyzstan. Già al summit della Shanghai Cooperation Organization tenutosi a Dušanbe, nel settembre 2021 il Presidente kazako Toqaev si era detto propenso ad iniziare un dialogo informale con le nuove autorità afghane, pur non sbilanciandosi su un eventuale riconoscimento.  La seppur parziale apertura ha permesso l’invio di prodotti agricoli, per far fronte alle necessità primarie della popolazione.

Più freddo il governo di Biškek, che ha dichiarato che la formazione di uno Stato teocratico nella regione influenzerà senza dubbio negativamente la situazione attuale nei paesi membri dell’ Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO).  Tutto ciò è il frutto di una politica attendista, che i due paesi si possono permettere in quanto posti ad una relativa distanza dai confini con l’Afghanistan.

La portata dell’integralismo che sta purtroppo rifiorendo con i Talebani deve tuttavia essere ridimensionato. Ad oggi non sembra sussistere il rischio di una esportazione dall’Afghanistan dell’Islam radicale. Il sostrato culturale sul quale sono andate sviluppandosi i diversi Stati centro-asiatici differisce considerevolmente dal contesto afghano e ad oggi, un particolare tipo di radicalismo, quello dell’islamismo militante, attecchirebbe con difficoltà. 

Vero è che un Afghanistan instabile costituisce comunque una minaccia alla stabilità di area, per l’attrattività che questo potrebbe rappresentare per altri gruppi fondamentalisti, così come è avvenuto anche nel recente passato, per le ondate migratorie che l’acuirsi della crisi economica, e sempre più anche sanitaria potrebbe provocare, per il tipo di economia criminale che prosegue fiorente e che ha in Kabul il suo centro nevralgico. L’Afghanistan continua a produrre il 90% dell’oppio globale e il 20% dell’eroina prodotta nel paese viene contrabbandata verso l’Asia Centrale per raggiungere i mercati primari europei, russi e cinesi. Un traffico dal valore stimato in svariati miliardi di dollari che intacca le economie sane, e che danneggia il tessuto sociale ampliando il numero dei consumatori, con ricaschi deleteri sui sistemi sanitari nazionali e sull’ordine pubblico.


La situazione rimane pertanto assai fluida e precaria, almeno fino a quando non si saranno stabilizzati di delicati equilibri di potere intra-tribali. I paesi dell’Asia centrale possono oggi giocare un ruolo rilevante nella sicurezza regionale, cercando di sostenere, in concerto con la comunità internazionale, la fazione “dialogante”, anche attraverso una serie di accordi bilaterali ed accompagnando il paese verso una sua ricostruzione che tuttavia è possibile solo se è frutto e prodotto di una volontà interna.

Michele Brunelli
Università degli studi di Bergamo

Docente di Storia ed Istituzioni dei Paesi afro-asiatici
Direttore del Master in Prevenzione e contrasto alla Radicalizzazione ed al Terrorismo
Università degli Studi di Bergamo

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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

Consulta il testo del provvedimento
http://www.eu/ita/archivio/LEmirato-Islamico-dellAfghanistan-ed-i-rapporti-con-le-repubbliche-centro-asiatiche-di-Michele-Brunelli-1113-ITA.asp 2022-02-15 daily 0.5