La Russia e la sicurezza della Via della Seta: la strategia militare di Mosca in Asia centrale (Giannicola Saldutti)

L’ importanza della regione centroasiatica è salita sempre più agli onori delle cronache in concomitanza e per effetto di due eventi che hanno irreversibilmente alterato le dinamiche della politica internazionale degli ultimi 30 anni: la dissoluzione dell’Urss con la conseguente indipendenza delle cinque Repubbliche che suddividono la regione suddetta e l’ascesa economica e politica della Cina. Il nuovo assetto vede, dunque, una serie di Paesi che, tra diverse difficoltà e limiti socioeconomici, tentano di approfittare e bilanciare le politiche di influenza russe e cinesi, le quali, per motivi simili ma anche differenti, sembrano continuamente proiettate a voler determinare le scelte strategiche dell’Asia centrale. Le ambizioni cinesi sono state spesso analizzate in questa sede: la sicurezza regionale del confinante Xinjiang, l’implementazione di nuove tecnologie in chiave anti-terroristica, la rete di approvvigionamento energetico, nonché le infrastrutture necessarie per accelerare il transito delle merci lungo la Via della Seta sono in testa agli interessi regionali di Pechino, la quale non si è tirata indietro nel concedere a diversi Paesi centroasiatici il proprio aiuto economico e logistico, aiutandosi con un soft power che, anche considerando gli infausti eventi recenti, si dimostra sempre più rodato ed efficiente persino in Occidente. 

Su cosa, invece, può far leva la Russia nel contrastare l’ascesa cinese? Se dal punto di vista economico è senza dubbio il Celeste Impero a potersi permettere di interpretare il ruolo principale, Mosca gioca le sue carte cercando di far pesare il suo ascendente innanzitutto dal punto di vista della sicurezza regionale. A tal proposito è d’obbligo rimandare al fatto che la Russia detiene, dalla sua parte, un’esperienza statuale condivisa e perdurata per oltre un secolo con tutti i Paesi dell’Asia centrale, i quali hanno tentato con scarso successo di affrancarsi dalla stretta di Mosca nell’ultimo trentennio includendo altri attori globali: la geografia e la storia, infatti, sembrano aver puntualmente riconsegnato il pallino del gioco nelle mani russe. Nonostante le proposte e le istituzioni politico-economiche di matrice russa abbiano influito con alterne fortune sulle dinamiche degli Stan Countries (dinamiche peraltro aggravatesi maggiormente all’interno dell’Unione Economica Eurasiatica specialmente dopo la crisi politica del 2014), dal punto di vista culturale e militare, Mosca detiene un potenziale che la rende il soggetto principale in ogni discorso comprendente l’Asia centrale. Alla Russia è, infatti, demandata la gestione e la supervisione della sicurezza su buona parte  dello spazio centroasiatico su diversi livelli: cooperazione militare (tramite l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettivo) e politica (tramite CSI, SCO ed UEE) multilaterale, presidio fisso garantito da basi ed installazioni militari, sicurezza e controllo dei confini dei Paesi (spesso friabili e teatro di preoccupanti scenari di spill-over di fondamentalismo politico e religioso), addestramento delle forze locali e, ultimo ma non ultimo, il commercio e l’approvvigionamento di armi ed attrezzature belliche. 

Mosca ha già maturato esperienza nella gestione dei conflitti locali: la guerra civile tagika perdurata dal 1992 al ’97, nella quale le forze russe hanno operato nel ruolo di pacificatrici, il conflitto afghano del 2001, nonchè le “rivolte colorate” avvenute in due riprese in Kyrgyzstan (2005 e 2010) hanno accreditato Mosca in qualità di unica forza in grado di regolare le contese territoriali ed evitare o quantomeno attenuare i postumi di possibili regime changes. Tuttora permangono diversi fattori di rischio specie in aree indicate come “calde”, a partire dalla cosiddetta valle di Fergana, territorio politicamente appartenente all’Uzbekistan ma incastonato tra Kyrgyzstan e Tagikistan, teatro di fondamentalismo islamico. Non sono da meno i “casi” del Karakalpakstan in Uzbekistan (Paese teatro del tristemente memorabile massacro di Andizhan avvenuto nel 2005 sempre per sedare fenomeni di integralismo religioso di matrice islamista) e del Gorno- Badakhshan in Tagikistan, regione con velleità secessionistiche di credo mussulmano sciita e lingua pamiri, nota per essere stata spesso sbocco di un corridoio per il traffico di stupefacenti proveniente dall’Afghanistan. La stabilità politica e la dissipazione di qualsiasi estremismo religioso, il controllo del flusso migratorio verso la Russia, nonché la difesa della sua “diaspora” ancora parzialmente presente in Asia centrale (sebbene visibilmente traumatizzata dai tragici eventi che seguirono la dissoluzione dell’Urss) rimangono le priorità di Mosca, almeno fino a quando la questione afghana continuerà a tenere banco. Nello stilare la propria dottrina militare nel 2014, infatti, il Ministero della Difesa ha tenuto inevitabilmente conto delle diverse possibilità di intervento nella regione, intervento modulabile a seconda delle necessità e degli scenari quali: 1) conflitto armato (Vooružënnyj konflikt); 2) guerra locale (lokal’naja vojna); 3) guerra regionale (regional’naja vojna); 4) conflitto su larga scala (krupnomaštabnaja vojna).

Ciascuno scenario comprenderebbe, in un ipotetico e graduale deterioramento degli stessi, ad implementare diverse misure in termini di uomini, infrastrutture e mezzi coinvolti nelle operazioni: dall’impiego di un semplice battaglione alla mobilitazione strategica di tutto l’esercito, riservisti compresi. La Federazione Russa, a tal proposito, sembra aver a disposizione diverse carte al proprio mazzo. 

Considerando le tre istituzioni politiche ispirate dalla Russia (CSI, SCO ed ODKB) ed operanti sul terreno della sicurezza regionale, è bene notare che ben quattro Paesi su cinque sono aderenti in almeno due di esse (parliamo di Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tagikistan ed Uzbekistan). Dal punto di vista geopolitico, notiamo come Kazakhstan, Kyrgyzstan e Tagikistan formino il blocco continentale contiguo nel quale la Russia risulta essere più operativa, considerando un Uzbekistan post-Karimov da poco riabituatosi ad un dialogo con Mosca in materia di sicurezza ed un Turkmenistan del tutto recalcitrante alle attenzioni russe. Proprio sui primi tre Paesi vale la pena di concentrare la nostra analisi: la Federazione russa detiene sul loro territorio in totale 2 basi militari e ben 8 installazioni: parliamo della Base Militare 201 in Tagikistan (capienza: 5000-7000 uomini), sede della storica divisione corazzata di stanza a Dushambe dalla seconda guerra mondiale, nonché della base aerea di supporto 999 con sede a Kant, in Kyrgyzstan. In Kazakhstan  tra le installazioni annoveriamo il cosmodromo di Bajkonur e la 49° stazione radar per missili balistici, in Tagikistan una stazione di monitoraggio dello spazio aereo ed in Kyrgyzstan la 338° stazione di comunicazione marittima. 

Stando a quanto riportato da un dettagliato report pubblicato nel 2019 dal FOI (Swedish Defence Research Agency), la forza militare russa (in termini di numero di personale militare e paramilitare impiegato sulla terra ed in aria, mezzi aerei e terrestri) supera quella di tutti i Paesi centroasiatici uniti. Ciò determinerebbe la possibilità, da parte di Mosca, di gestire qualsiasi crisi politico-militare all’interno di ciascun Paese o tra di essi oppure, come nel caso della Georgia nel 2008, le forze russe potrebbero facilmente prevalere in qualsiasi scenario conflittuale che potrebbe emergere tra la Federazione Russa ed un qualsiasi Paese centroasiatico. La disposizione delle strutture militare, poi, non risulta essere casuale: qualsiasi tipo di intervento, modulabile a seconda dei quattro scenari già citati, verrebbe affrontato tenendo presente la geografia della regione, suddivisa opportunamente in tre “fasce” da nord a sud: 1) un’area settentrionale coincidente con tutta la regione settentrionale del Kazakhstan, direttamente collegato alla Russia da strade contigue e snodi ferroviari costruiti in epoca sovietica; 2) una zona intermedia di “flatlands”, ossia steppe e deserti contrassegnata da uno scarso livello di vie di comunicazione e coincidente con il Kazakhstan meridionale, tutto il Turkmenistan e parte dell’Uzbekistan; 3) una regione montuosa compresa dal Tagikistan e dal Kyrgyzstan dalle caratteristiche inospitali ed impervia, nonché più densamente popolata. 

Dal confine russo-kazako presso Ekaterimburg fino al Tagikistan meridionale vi passano circa 1900 km, una distanza pari tra quella registrata tra la Sicilia e la Danimarca. Ciò rende perfettamente l’idea della complessità di qualsiasi manovra portata avanti su vasta scala, considerando l’Asia centrale alla stregua di un vero e proprio continente, almeno in termini di dimensioni. Mentre l’area settentrionale consentirebbe alla Russia un dispiegamento rapido di mezzi e forze (le quali, per il supporto logistico e l’approvvigionamento, farebbero leva sulle numerose vie di comunicazione che si dipanano a nord di Nur-Sultan, nonché facendo leva sulle basi aeree presenti in Russia), già nella regione delle “flatlands” la rapidità del dispiegamento verrebbe meno, minando la possibilità di condurre ciò che in gergo tecnico viene definita JISCO (Joint Inter-Service Combat Operation), anche considerando che le vie di comunicazione consentono uno spostamento in direzione sud-nord, impedendone uno in direzione est-ovest. La zona più meridionale, ovvero quella montuosa, poi, aumenterebbe ancora il livello di complessità: una piena penetrazione delle forze russe sarebbe resa impossibile dalla natura geografica del territorio: l’altezza delle catene montuose minerebbe anche la costanza e l’efficienza del supporto aereo. Non a caso, è facile notare come le due basi militari russe presenti in Asia centrale siano disposte proprio in questa fascia: la difficile raggiungibilità richiede delle capacità di dispiegamento che comprendano la presenza in loco delle forze sia corazzate che aeree. 

In conclusione, la Russia può operare in Asia centrale sotto il punto di vista militare adattandosi a diversi scenari, i quali vanno dal conflitto locale alla guerra regionale. Il rapporto del FOI precisa anche che, anche in caso di conflitto regionale, sarebbe molto difficile assistere ad una escalation che comprenda attori esterni, considerando le estreme difficoltà date dalla geografia dei luoghi presi in esame. La Russia, nonostante non detenga le forze necessarie a condurre una guerra su larga scala e dispiegare tutte le forze necessarie con rapidità, detiene un vantaggio più che considerevole sul piano strategico, militare e politico. Se Pechino sfrutterà la regione rendendola teatro dei suoi più remunerativi affari, c’è da ricordare che la Via della Seta (già minacciata dagli eventi pandemici in corso) potrà operare a pieno regime soltanto in uno spazio innanzitutto sicuro, dove il rischio di regime change e/o proliferazione di cellule terroristiche deve essere necessariamente ridotto al minimo. Nonostante la Cina si stia attrezzando per concorrere con Mosca anche sul piano della sicurezza, la Russia sembra avere la “chiave” per poter operare con una certa disinvoltura, nel caso la situazione dovesse richiederlo, in un territorio che, per ragioni storiche, conosce meglio di chiunque altro. 




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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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