La crisi in Kazakistan e la lunga dissoluzione sovietica

Con la crisi del regime kazako stiamo assistendo a un’ulteriore tappa del processo di disintegrazione dell’URSS che, iniziato trent’anni fa, è in realtà ancora in corso.
Che la dissoluzione formale dell’Unione Sovietica nel 1991 non avesse sancito da un giorno all’altro la fine dell’ordine regionale e politico precedente era già apparso evidente con le rivoluzioni colorate in Georgia, Ucraina e Kirghizistan nei primi anni duemila, con la guerra russo-georgiana nel 2008 e con lo scoppio della crisi ucraina nel 2014.
Nonostante retoriche nazionaliste e spesso apertamente antisovietiche, le élite politiche al potere nei nuovi stati indipendenti erano in gran parte le stesse che avevano guidato i locali partiti comunisti per anni, e le società ed economie delle ex repubbliche erano inizialmente troppo integrate e dipendenti dalla Russia (chi più chi meno) perché emergesse uno spazio realmente post-sovietico e sganciato dall’orbita di Mosca. O almeno così credeva gran parte della classe politica russa. Sebbene il principale architetto della dissoluzione dell’URSS fosse stato proprio l’allora presidente russo Boris Yeltsin, al Cremlino e all’interno delle strutture governative moscovite era rimasta solidamente ancorata l’idea che, anche senza una vera strategia di reintegrazione regionale, le ex repubbliche sovietiche (tra tutti gli Stati slavi di Ucraina e Bielorussia e quelli dell’Asia Centrale) sarebbero rimaste un’area di diretta influenza russa. Complice una mentalità imperiale - ma anche la drammatica crisi economica degli anni Novanta che mise la questione in secondo piano - Mosca non ha mai elaborato una politica estera specifica per il suo “Estero Vicino”, e i fiacchi tentativi di dar vita a un progetto regionale, con la Comunità degli Stati Indipendenti prima e l’Unione Eurasiatica poi, si sono rivelati quasi immediatamente dei fallimenti.
Invece di una strategia meditata, l’elemento su cui il governo e la diplomazia russa hanno contato per impostare le relazioni con le nuove repubbliche è stata la conoscenza diretta e personale delle loro élite (che non solo parlavano russo spesso meglio delle lingue locali, ma condividevano una stessa cultura e formazione sovietiche), con cui intrattenere scambi in gran parte informali, e a cui continuare a fornire armi ed energia a basso costo in cambio di fedeltà politica.
Questo vuoto strategico si è scontrato contro il muro della realtà quando manifestazioni popolari hanno portato al potere figure apertamente antirusse come Michail Saakašvili in Georgia. Da quel momento, Mosca ha reagito a tutte le proteste antigovernative e alla mera possibilità che le ex repubbliche guardassero a Occidente invece che alla Russia con pressioni e ricatti, ma soprattutto con la forza, inviando truppe ufficialmente per “evitare ingerenze straniere”, ma in realtà per rivendicare il diritto alla propria sfera d’influenza e impedire a tutti i costi l’avvicinamento di alcune di loro, in primis Georgia e Ucraina, alla NATO e alla UE. Le reazioni (che sarebbe sbagliato interpretare semplicisticamente come la volontà di Mosca di far rinascere l’Unione Sovietica) si sono fatte tanto più violente quanto più sono cresciuti al Cremlino i timori che lo stesso scenario avrebbe potuto riprodursi anche solo parzialmente in Russia, mettendo in crisi l’ormai ventennale regime putiniano.
La nuova sfida per la classe dirigente di Mosca
Rispetto alle crisi precedenti, gli eventi kazaki degli ultimi giorni e la conseguente delegittimazione del regime di Nur-Sultan (dal 1997 la capitale del Paese, che chissà per quanto tempo ancora continuerà a chiamarsi così) sono particolarmente interessanti, perché pongono anche per la Russia una questione nuova e ineluttabile, connessa alla fine naturale di una generazione di leader autoritari di stampo e formazione sovietici, e il problema della loro successione.
Nursultan Nazarbaev (non più presidente dal 2019, ma ancora di fatto alle redini del Paese) non rappresenta(va) solo l’ultimo presidente al potere ininterrottamente da prima del crollo dell’URSS, ma un elemento di stabilità pluridecennale nella regione centroasiatica – di cui il Kazakhstan è (era?) il paese di riferimento - e nelle relazioni bilaterali russo-kazake.
Alla richiesta del presidente Qasym-Jomart Tokaev, Mosca ha subito inviato (poche) forze armate di “peacekeepers” della CSTO (la “Collective Security Treaty Organization”, sorta di improbabile clone regionale della NATO) per aiutare a presidiare i palazzi del potere contro i manifestanti.
È sempre possibile speculare su come la Russia colga ogni occasione per riaffermare la propria influenza nello spazio post-sovietico e come questo intervento rafforzerà il ruolo di Mosca in Kazakhstan. Ci sono però altri due elementi da considerare.
Il primo è che i timori russi sono più che comprensibili. Lo spettro di un vuoto di potere in Kazakhstan, Paese con cui condivide 7.000 chilometri di frontiere e in cui si trova il suo fondamentale cosmodromo di Baikonur, è concreto. A questo potrebbero seguire disordini nelle altre repubbliche centroasiatiche. Tra l’altro, il fatto che la crisi di legittimità in Kazakhstan sia avvenuta poco dopo l’avvio di un passaggio graduale di potere da Nazarbaev ai suoi successori, verrà probabilmente interpretato dal Cremlino come un’ulteriore prova che l’uscita di scena di Putin sia potenzialmente rivoluzionaria, e quindi da ritardare ad libitum.
Il secondo elemento è che la presenza militare russa sul territorio, per difendere i governi esistenti o, se necessario, per aiutare forze ribelli, può forse rallentare il processo di smembramento graduale dell’ex spazio sovietico in corso dal 1991, ma non può impedirne l’avanzamento né tantomeno invertirne la rotta, soprattutto fino a quando Mosca rifiuterà soluzioni di lungo respiro e continuerà ad aggrapparsi ad una generazione che tra poco apparterrà alla storia.
Articolo pubblicato il 12 gennaio 2022
Fonte: Huffington Post
Autore: Stefano Iannaccone
Articolo Originale: https://www.huffingtonpost.it/entry/kazakistan-dissoluzione-sovietica_it_61debe36e4b0ae44b319811c