La cultura: una componente strategica per l'internazionalizzazione (di Luca B. Fornaroli)

Prendo spunto dal convegno sul Kazakistan che abbiamo organizzato il 10 giugno scorso presso l'API di Novara per riproporre alcune delle considerazioni contenute nel mio intervento in quella sede e che si ricollegano a quanto avevo scritto per Eurasian Business Dispatch qualche mese fa.

Il convegno era centrato sulle prospettive di internazionalizzazione per le imprese, tema che è stato trattato da molteplici punti di vista in considerazione dei diversi significati e declinazioni che un processo di internazionalizzazione può assumere: dalla ricerca di un mercato di sbocco per i prodotti a nuove opportunità per il procurement, dalla possibilità di effettuare investimenti diretti all'estero alla costituzione di joint-venture o contratti di licenza e, in direzione opposta, alla capacità di attrarre investitori stranieri.

La varietà di opzioni che il termine internazionalizzazione contiene fa comprendere come l'idea di multinazionale non possa più solo riferirsi alle grandi corporation con centinaia di filiali sparse per il globo, ma si possa utilizzare anche per PMI che hanno il coraggio e la lungimiranza di non limitare ai confini nazionali o europei le proprie attività produttive. È anche a queste imprese che si rivolgono le linee guida sulle multinazionali pubblicate dall'OCSE. Si tratta di vere e proprie indicazioni sulla condotta da tenere quando si opera oltre frontiera, soprattutto in paesi con ordinamenti giuridici ancora in evoluzione e che non tengono conto di numerose fattispecie e casistiche tipiche degli ordinamenti occidentali e del diritto internazionale.

Le linee guida OCSE non sono vincolanti per soggetti non appartenenti a paesi che le abbiano sottoscritte (l'Italia è invece uno di questi) e non si sostituiscono in alcun modo alla legge nazionale, tuttavia spesso precedono l'evoluzione normativa che verrà adottata nei vari paesi e, soprattutto, stabilizzano le aspettative dei vari operatori, creano uno standard di comportamento accettato, adottato e verso il quale le imprese si impegnano indipendentemente dalla percezione della sua cogenza. La normativa italiana in materia di internazionalizzazione si ispira agli stessi principi delle linee guida, la loro adozione quindi è conforme agli obblighi di legge nel nostro paese. In termini pratici, un'azienda italiana non può pensare di fare all'estero quel che le è vietato fare in Italia senza il rischio di pagarne le conseguenze proprio in patria. Mi riferisco in particolare agli aspetti relativi ai diritti umani, alle condizioni di lavoro, alle forme di schiavitù, al lavoro svolto da minori, alla discriminazione di genere, alla tutela ambientale, alla corruzione, agli obblighi di comunicazione e trasparenza e agli obblighi fiscali.

Tuttavia, chi ha un po' di dimestichezza con questi argomenti e un po' di esperienza di mondo non può non notare che questi stessi aspetti - che in un contesto europeo e occidentale assumono un significato preciso e sono quasi dati per scontati - in molti paesi esteri, soprattutto in via di sviluppo, trovano resistenze o interpretazioni che non sono semplicemente pretestuose - come verrebbe da dire ad un'analisi molto superficiale di queste tematiche - bensì fortemente radicate nella cultura di quelle latitudini. L'idea stessa di protezione dei diritti umani e di condizioni di lavoro accettabili non riesce a trovare la stessa lettura comune ovunque: condizioni che per noi appartengono a un lontano passato sono la regola oggi in molti paesi che non hanno ancora fatto - ne è scontato che lo facciano - il nostro percorso di crescita sociale e di sviluppo. Lo stesso uso dei bambini nella produzione industriale ci scandalizza giustamente, ma non deve farci dimenticare due elementi importanti: in primis, noi abbiamo fatto la stessa esperienza agli albori della nostra crescita economica, era infatti normale che i bambini delle classi più disagiate lavorassero in condizioni umili e di pericolo; in secondo luogo, il contributo al reddito delle famiglie povere nei paesi a basso tasso di sviluppo è fondamentale per la loro sussistenza. Pertanto la riduzione del lavoro minorile e la scolarizzazione dei fanciulli deve comunque avvenire senza colpire i redditi dei nuclei familiari e comunque in modo graduale. Inoltre, visto il nostro passato, non siamo autorizzati a puntare troppo il dito e a giudicare contesti da cui, per fortuna, siamo usciti, avendone però, purtroppo, scarsa memoria.

Un argomento ancora più critico, anche se umanamente meno drammatico rispetto al lavoro minorile o infantile, riguarda la corruzione. Per gli ordinamenti anglosassoni corruzione è qualsiasi tentativo di ottenere vantaggi che non ci spettano in cambio di un beneficio elargito a un funzionario pubblico. L'ammontare del beneficio o del vantaggio non ha molta rilevanza, conta la non liceità e l'immoralità dello scambio. Già nel mondo latino e mediterraneo invece la cultura del favore è vista con maggiore accondiscendenza e vantaggi e benefici di piccoli importi sono molto più tollerati. In altri contesti invece quel che chiameremmo corruzione diventa addirittura prassi, regola di condotta, come è il caso dello scambio di regali dello stesso valore in molti paesi asiatici e centro asiatici. Una pratica che al di là delle Alpi verrebbe vista non senza sospetto. Per non parlare della corruzione vera e propria che si accompagna ai grandi contratti, riguardando sia il settore pubblico sia quello privato, stigmatizzata e biasimata da tutti, ma praticata largamente anche dagli stessi che si vantano delle decine di pagine dei loro codici etici. Un fenomeno che in ogni caso crea profonde distorsioni sul mercato e sulla competitività delle imprese.

Potrebbero seguire molti altri esempi sulle difformi interpretazioni di principi sacrosanti e sulla diversa percezione dell'illiceità o immoralità di taluni comportamenti. Tutti questi casi hanno un trait d'union che li collega: la diversità culturale. 
L'attenzione alla cultura è uno degli elementi determinanti per il buon fine dei processi di internazionalizzazione: è la cultura che ci fa percepire e giudicare gli altri e i loro comportamenti ed è la cultura che ci fa essere percepiti e giudicati. La cultura è la lente attraverso cui interpretare la realtà e definire l'identità di una popolazione, è un insieme di codici per interpretare e comprendere noi stessi e chi abbiamo davanti. La sensibilità all'elemento culturale altrui consente di capire come il nostro interlocutore sta valutando quel che diciamo e facciamo nella fase relazionale e negoziale. Come ben sapevano i gesuiti nel '500, la conoscenza della cultura evita che si facciano passi falsi. Per questo la formazione linguistica e culturale del capitale umano è una condizione imprescindibile per affrontare i mercati esteri, molto di più del marketing. Senza competenze culturali non ci possono essere comunicazione efficace né legami d'affari di lungo periodo. La cultura deve diventare una componente strategica dell'impresa.




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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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http://www.eu/ita/archivio/La-cultura-una-componente-strategica-per-l-internazionalizzazione-di-Luca-B--Fornaroli-268-ITA.asp 2016-07-27 daily 0.5