La geopolitica della lingua russa in Asia Centrale: focus su Turkmenistan e Uzbekistan (di Giannicola Saldutti)

Lo status occupato dalla lingua russa nelle cinque repubbliche dell’Asia centrale rappresenta senza dubbio alcuno una delle principali leve con le quali Mosca esercita il suo soft power dopo la dissoluzione dell’Urss.
 
L’esperienza politica sovietica vissuta dalle giovani Repubbliche centroasiatiche ha contribuito in maniera preponderante, sia dal punto di vista politico che da quello culturale, a contrassegnare una prima fase di nation building durante la quale la lingua russa ha giocato un ruolo decisivo in termini istituzionali, rappresentando una lingua franca in grado di allineare su un sentiero comune l’intero spazio preso in esame. Basti pensare che le principali organizzazioni sovrannazionali che coinvolgono a vari livelli gli attori principali della regione (come l’Unione Economica Eurasiatica, l’ODKB e lo SCO) vedono il russo in qualità di lingua ufficiale, senza considerare, poi, il problema della diaspora russa: nonostante le recenti cronache vedono la popolazione russofona dell’Asia centrale protagonista di un repentino ritorno verso la madrepatria, la questione della fetta di popolazione orientata all’utilizzo della lingua slava più parlata nel mondo a dispetto degli idiomi locali continua a tenere banco nelle agende programmatiche di Paesi strategicamente decisivi per gli orizzonti geopolitici di Mosca, come il Turkmenistan, il Kazakhstan e l’Uzbekistan. Non si può non tener presente che i tre Paesi menzionati (che rappresentano i più ricchi e sviluppati dell’intera regione, con una popolazione totale ammontante a circa 56 milioni di abitanti, ovvero l’80% circa dell’intera Asia centrale) già abbiano deciso di “latinizzare” le proprie lingue ufficiali, approntando vari tentativi per ridurre l’impatto del soft power di Mosca. 

Mentre il Kazakhstan è riuscito a perseguire una politica saggia e pragmatica nel preservare lo status ragguardevole occupato dalla lingua russa nelle dinamiche socio-politiche del Paese (nonostante la recente e discussa riforma di “traslitterazione” dei caratteri kazaki dal cirillico al latino), la strada recentemente intrapresa da Turkmenistan ed Uzbekistan lascia intendere una sempre più chiara volontà di allontanamento dai confini della sfera culturale filo-russa e post-sovietica tracciata fin dal XIX secolo. A far discutere le recenti disposizioni di Ashgabad in merito all’insegnamento del russo nelle scuole: il governo turkmeno si è visto costretto a sospendere la formazione delle cosiddette “classi russe” ufficialmente per ragioni collegate all’epidemia di Covid-19. Secondo fonti locali, le classi russe rappresentavano una categoria di eccellenza nel sistema scolastico turkmeno, consentendo agli alunni di poter apprendere la lingua in tenera età per poi essere avviati ad una prosecuzione degli studi presso le università russe e bielorusse, un approdo classico e consolidatissimo nella tradizione della classe dirigente centroasiatica. 

La Russia, infatti, ha sempre rappresentato una meta privilegiata per gli studi più professionalizzanti ed avanzati, nonché per il perseguimento di migliori condizioni di lavoro e di vita, condizioni che poi permettono ai lavoratori centroasiatici di sostentare le proprie famiglie tramite le rimesse personali che rappresentano una fetta importante di ricchezza. Al punto tale che, sempre secondo fonti locali, l’inserimento nelle “classi russe” era sempre più soggetto al pagamento illegale di forti tangenti (ammontanti fino ai 400 dollari, molto più di uno stipendio mensile). L’ambasciata russa presso Ashgabad ha espresso rammarico per la decisione, menzionando l’accordo di amicizia stipulato nel 2002 tra Russia e Turkmenistan, caposaldo del quale figurava essere proprio il mutuo insegnamento della lingua russa e turkmena in ambedue i Paesi. L’impressione generale, però, lascia intendere che Mosca stia trascurando troppo lo status linguistico-culturale acquisito in Asia centrale, non intervenendo con abbastanza fermezza nel tutelare i diritti dei russofoni della regione, risultando molto meno suscettibile rispetto alle violazioni che, ad esempio, vengono perpetrate costantemente a tal proposito in Ucraina e nei Paesi baltici. 

Le notizie che giungono dal vicino Uzbekistan, da questo punto di vista, non confortano: fa tuttora discutere la riforma linguistica della pubblica amministrazione rilanciata da Tashkent, la quale prevede l’abolizione della lingua russa da tutti i documenti ufficiali, con pene molto severe per i funzionari trasgressori: dai 450 mila fino al milioni di som, pari a circa 110 dollari (considerando che un salario medio uzbeko va dai 100 ai 200 dollari).

La misura restrittiva punta chiaramente ad epurare la componente russofona dalla pubblica amministrazione ed in generale dagli organi statali. Tashkent ha giustificato la manovra rifacendosi agli articoli 4 e 9 della costituzione che garantiscono uno status esclusivo e privilegiato alla lingua uzbeka. La preoccupazione, anche a livello di intelligence, è stata destata dall’ampia produzione di documenti e note ufficiali in lingua russa.  Se a tutto ciò si somma la progressiva rinuncia da parte dell’Uzbekistan al bilinguismo anche a livelli più basilari (sono sempre di più i russofoni messi in difficoltà dalla scomparsa delle segnaletica e dalle indicazioni stradali e pubblicitarie in doppia lingua), nonché la rinuncia all’alfabeto cirillico già adoperata anni fa con risultati altalenanti e contraddittori, il quadro risulta essere chiaro: il Russkij mir, ovvero il “mondo russo” che ha per secoli pervaso l’Asia centrale con la sua spinta culturale comincia a scricchiolare sotto i colpi delle decisioni delle cancellerie centroasiatiche sempre più determinate a proseguire il proprio processo di nation building in maniera autonoma. 

Le decisioni sempre più inequivocabili di Uzbekistan e Turkmenistan riusciranno nell’intento di scalzare definitivamente la lingua russa dalla loro vita politica e sociale? È difficile che ciò possa accadere in tempi brevi, nonostante Mosca debba tenere in mente che i segnali sono sempre più chiari: oltre alle recenti prese di posizione conflittuali, c’è da considerare che la percentuale dei russofoni sta progressivamente diminuendo anno dopo anno. Le lingue locali non sono sviluppate a tal punto da consentire ai Paesi menzionati di poter fare a meno del russo nel campo della scienza, delle arti e della cultura ma, con il passare degli anni e l’evolversi dei tempi e delle agende politiche, la stessa lingua di Puškin potrebbe subire la concorrenza spietata di altri idiomi utili sotto l’aspetto politico e soprattutto economico. La Cina ha recentemente dimostrato di non voler farsi trovare impreparata neanche sotto questo punto di vista. 




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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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