La mano di Washington nella nuova cooperazione tra Kazakhstan e Uzbekistan? (di Pierluigi Franco)

Kazakhstan e Uzbekistan guardano all’era post-covid rafforzando la cooperazione in un complicato contesto che oscilla tra sviluppo economico e sottili giochi geopolitici. Nei primi due mesi del 2021, infatti, i due maggiori Paesi dell’Asia Centrale hanno avviato una serie di incontri congiunti a livello tecnico e ministeriale, ponendo in primo luogo il fronte del potenziamento delle infrastrutture e del turismo. L’ultimo incontro, il 18 febbraio a Tashkent, ha visto di fronte con spirito di grande collaborazione i ministri degli Esteri dell'Uzbekistan, Abdulaziz Kamilov, e del Kazakhstan, Muhtar Beskenuly Tileuberdi, che è anche vice premier. Oggetto della discussione, secondo quanto riferito in una nota congiunta, è stata la valutazione di “opportunità dirette ad attivare una interazione con altre regioni del mondo attraverso la realizzazione di infrastrutture, progetti di trasporto e comunicazione”. E quella possibilità di “interazione con altre regioni del mondo” ha fatto inevitabilmente alzare le antenne degli osservatori delle potenze tradizionalmente più presenti in questa area ex sovietica.
Qualche giorno prima si era svolto un altro incontro tra i ministri dei Trasporti dei due Paesi, mentre a fine gennaio il capo del governo kazako, Askar Mamin, aveva annunciato l’avvio della realizzazione di una linea ferroviaria ad alta velocità per collegare il sud del Kazakistan, precisamente le città di Shymkent e Turkistan, con la capitale uzbeka Tashkent. Non un semplice collegamento ferroviario, dunque, ma una linea che sembra tracciare un legame tra importanti luoghi storici dell’area centrasiatica e che, secondo il primo ministro kazakho, potrà portare il turismo ad avere un peso superiore al 5% del Pil, oltre a offrire la possibilità di 20.000 nuovi posti di lavoro nel settore e circa 100.000 posti nell’indotto.
Un clima di grande fermento, dunque, che sembra implicare qualcosa che va al di là del semplice rafforzamento dei rapporti kazakho-uzbeki. Prima di questi incontri, a gennaio, c’è stato infatti un evento importante, passato quasi in sordina in un mondo alle prese con la lotta alla pandemia: la nascita del ‘Central Asian Investment Partnership’ tra Stati Uniti, Kazakhstan e Uzbekistan, un’iniziativa coordinata da US International Development Finance Corporation (DFC) e Astana International Financial Center (AIFC) per attrarre investimenti di almeno un miliardo di dollari nei prossimi cinque anni per lo sviluppo economico dei due Paesi centrasiatici. In una nota diffusa dall’Ambasciata Usa in Kazakhstan si legge che l’iniziativa “è un passo importante nel portare avanti gli sforzi degli Stati Uniti per sostenere la crescita economica e la prosperità per l'Asia centrale” e che è pronta ad accogliere “altri Paesi per partecipare a questa iniziativa per promuovere il partenariato economico regionale e la prosperità”. A sorpresa, quindi, sembra essere Washington a benedire questa accelerazione nelle relazione kazakho-uzbeke, aprendo anche alla possibilità di estendere il quadro agli altri Stati dell’area. Come qualcuno aveva previsto, dunque, l’era della presidenza di Joe Biden potrebbe riportare l’attenzione americana sull’area ex sovietica, come già era avvenuto sotto la presidenza di Barack Obama, dopo la parentesi dell’era di Donald Trump tutta protesa a contrastare l’Iran e a favorire l’Arabia Saudita.
D’altra parte lo stesso Biden, in uno dei suoi primi discorsi, è tornato a parlare del “pericolo” rappresentato da Russia e Cina, le due potenze alle quali una presenza americana in Asia Centrale può certamente dare fastidio e scombinare i piani. Non è un mistero che Washington vede con preoccupazione il progetto della Nuova Via della Seta con cui Pechino guarda all’Europa. E riuscire a ‘conquistare’ un posto nel bel mezzo del tragitto centrasiatico significherebbe dare un primo scacco alla Cina che in questa area ha già avviato una massiccia politica di investimenti. Sul fronte russo, poi, c’è da dire che riuscire a entrare nel cuore della CSI, la Comunità di Stati Indipendenti ex sovietici, sarebbe un potente smacco per Mosca dopo quanto è avvenuto in Ucraina quando Biden era vicepresidente Usa. Ancor più lo sarebbe sul fronte dell’Unione Economica Eurasiatica, di cui il Kazakhstan è uno dei pilastri oltre ad esserne stato il promotore già dal 1997.
Di certo le iniziative di sviluppo sembrano essere oggi indispensabili soprattutto per il Kazakhstan, fortemente dipendente da risorse fossili e minerarie, costretto a individuare nuovi orizzonti per diversificare un’economia messa alle strette soprattutto dalla volatilità del prezzo del petrolio che, nonostante le riduzioni di produzione decise dall’Opec, ha subito un calo di prezzo del 30% nell’ultimo anno.
Anche sul fronte della semplificazione del sistema bancario il Kazakhstan non ha perso tempo. Il presidente Kassim-Jomart Tokaev ha infatti firmato a gennaio una nuova legge che semplifica in maniera sostanziale la richiesta di banche straniere intenzionate ad aprire filiali in territorio kazakho. L’intento è chiaramente quello di attrarre investimenti esteri e sembra andare di pari passo con quanto auspicato con la creazione, nello stesso periodo, del Central Asian Investment Partnership.
In questa nuova ottica geopolitica centrasiatica non sembra poi essere casuale l’incontro tenuto a inizio febbraio ad Ashgabat fra rappresentanti del governo del Turkmenistan e una delegazione del movimento talebano guidata dal mullah Abdul Ghani Baradar. Un incontro per discutere della realizzazione del gasdotto Tapi che, partendo dal Turkmenistan, dovrebbe raggiungere Afghanistan, Pakistan e India. Si tratta di un progetto fortemente sponsorizzato da Washington che, secondo gli osservatori, avrebbe anche favorito l’incontro, facilitato dallo ‘sdoganamento’ dei Talebani dopo il vertice di pace di Doha.