La sinofobia in Asia centrale e la questione generazionale: gli ostacoli di Pechino sulla Silk Road (di Giannicola Saldutti)

Che l’Asia centrale rappresenti un’area strategicamente decisiva per le ambizioni non solo commerciali della moderna Cina è una realtà ormai assodata. L’enorme mole di investimenti diretti cinesi, i cordiali rapporti di amicizia tra Pechino e le cancellerie centroasiatiche, gli accordi in materia di energia e sicurezza, nonché il crescente livello di soft power che la Cina sta esercitando soprattutto investendo sulle nuove generazioni degli Stan Countries non fanno che decretare un verdetto che pare essere sempre più unanime per gli operatori del settore: dal 2008, ormai, il ruolo effettivo della Russia nella regione è andato sempre più ad assottigliarsi, cedendo il passo all’avanzare inesorabile della Cina, il quale, attraverso il progetto BRI, ritiene di aver trovato il modo di convertire in futura prosperità il grande potenziale di transito espresso dalla regione eurasiatica.

Eppure, non mancano le perplessità in un’area “giovane” dal punto di vista politico e con un livello di stabilità che può dirsi altalenante e variegato, nonostante l’arcinota continuità di potere avutasi in Paesi come Kazakhstan, Uzbekistan e Turkmenistan. Dopo aver analizzato a più riprese la minaccia rappresentata dalla radicalizzazione religiosa, vi è un altro punto di problematicità che solo negli ultimi anni ha destato l’attenzione degli analisti più attenti: le cronache quotidiane presentano sempre più casi (neanche più tanto isolati e sconnessi tra loro) di “sinofobia”, fenomeno celato dai discorsi dei circuiti politici centroasiatici pregni di riconoscenza nei confronti di Pechino, ma sempre meno ignorabile dai media locali. 

In ordine cronologico, già dal 2013 si susseguono aggressioni violente contro cittadini cinesi in Kirghizistan: particolarmente mal visti, i cinesi maschi sposati con donne kirghize sono stati vittima di numerosi episodi di violenza sfociati anche in omicidio, come nel caso del malcapitato Guan Ju Chang, imprenditore nel campo dell’ottica, ucciso a Bishkek nel luglio del 2013 in circostanze poco chiare. Sempre nello stesso anno vi furono già diversi casi di scontri interetnici tra gruppi locali kirghizi e camionisti cinesi operanti proprio sul confine. Nel dicembre del 2014, poi, un locale notturno cinese a Bishkek venne preso d’assalto dalle bande armate dell’organizzazione nazionalista Kyrik Choro, la quale accusò le donne operanti nel night club di traviare, tramite la prostituzione, i valori locali. Nel 2016 l’episodio più grave: l’attacco kamikaze all’ambasciata di Pechino nella capitale kirghiza, incidente ancora avvolto in una nube di mistero, preoccupante campanello d’allarme per la stabilità regionale. Gli ultimi episodi riguardano, invece, le cronache kazake e sembrano, ancora una volta, preoccupare la componente maschile del Paese: nel 2017 un’agenzia matrimoniale di Nur-Sultan ha sponsorizzato i profili di una quindicina di giovani rampolli cinesi, con lo scopo di riuscire a trovare loro moglie in Kazakhstan. L’episodio (irrilevante in quanto tale, ma evidentemente percepito come la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso) non è stato gradito ai tanti scesi in piazza per protestare contro l’aggressione “demografica” cinese, proponendo addirittura una tassa di 50mila dollari per qualsiasi matrimonio contratto con un cittadino straniero. Sempre in Kirghizistan sembra aleggiare la stessa preoccupazione: nel febbraio del 2018 il politico Melis Murataliev parlò di circa 30mila cittadine kirghize coniugate con uomini cinesi, scatenando le preoccupazioni di Paesi spaventati dal potenziale demografico di Pechino a cospetto di quello di una piccola repubblica come quella kirghiza. Diverse organizzazioni kirghize e kazake hanno, poi, recentemente fatto luce sui destini e le condizioni di alcuni cittadini centroasiatici detenuti nelle strutture carcerarie dello Xinjiang, vicenda che sta contribuendo notevolmente ad esacerbare gli animi.

Le paure dei Paesi centroasiatici si condensano tutte intorno ad un assioma imprescindibile per i fautori della tesi sinofobica: la Cina è nello spazio eurasiatico per invadere e conquistare, annettere economicamente e politicamente i Paesi, strangolarli demograficamente e prendere possesso dei beni statali tramite quella che già diversi analisti hanno definito “diplomazia del debito”, la strategia che vede Pechino finanziare grandi progetti logistici nei Paesi sulla nuova Via della Seta, per poi prenderne possesso data l’impossibilità degli stessi di ripagare l’intera somma. A tal proposito, degne di menzione sono anche le proteste di piazza avutesi in Kazakhstan nel 2016 per la cosiddetta “questione agraria”, dove in migliaia occuparono le strade di Atyrau, Aqtobe ed Almaty per protestare contro la “svendita” delle terre kazake ai ricchi acquirenti cinesi. 
La radici di questo fenomeno solo  recentemente salito alla ribalta delle cronache vanno ricercate innanzitutto nella storia dei rapporti che da secoli i popoli centroasiatici tengono con la confinante Cina: gli screzi tra l’ impero cinese e quello russo nella regione trovano origine nel XIX secolo, risoltisi nel 1884 con il secondo trattato di San Pietroburgo, il quale delimitava i confini dei due imperi lasciando una porzione di terra “di nessuno” a mò di cuscinetto proprio in corrispondenza delle montagne del Pamir. Il deterioramento dei rapporti sino-sovietici ha contribuito a trincerare i confini e militarizzare lo Xinjiang (solo negli anni ’60 vennero dislocate cinque divisioni di fanteria, guardie di frontiera ed artiglieria pesante), regione cinese a maggioranza uigura mussulmana, visibilmente attenzionata dai sovietici, considerando le politiche insolitamente generose riservate all’epoca ai quanti avessero preferito trasferirsi in URSS. Le attenzioni di Mosca non passarono inosservate a Pechino, che subito provvide a chiudere le frontiere a doppia mandata, isolando ermeticamente il mondo uiguro da quello centroasiatico-sovietico. L’URSS, in tal senso, provò senza dubbio a minare l’integrità territoriale cinese facendo leva sulle specificità etniche dello Xinjiang. È indubbio che anche la propaganda anticinese dell’epoca sovietica abbia contribuito a tracciare solchi profondi in una coscienza popolare che ha nettamente preferito il giogo russo ad un rapporto subordinato con Pechino. A tal proposito, è d’uopo citare un detto popolare kirghizo: “quando il Cinese dai capelli scuri arriverà, il Russo dalla barba rossiccia ti parrà più caro del tuo stesso padre”. Sempre in Kirghizistan, il culto popolare ancestrale venera il Dio-eroe Manas, protagonista dell’epos nazionale in perenne lotta contro il nemico, appunto, cinese. 

Le storiche inimicizie, dunque, sono state corroborate dalla propaganda sovietica e dal suo desiderio di contenere il potenziale di Pechino nella regione. Dopo la dissoluzione dell’URSS, l’atteggiamento della Cina in Asia centrale non ha fatto altro che rinsaldare questa percezione parziale agli occhi della società civile. È opportuno ricordare, infatti, le contese territoriali risoltesi sempre in favore di Pechino: nel 1994, ’97 e ’98, Nazarbaev ed il premier cinese Li Peng firmarono svariati accordi che disponevano la cessione di una porzione di territorio kazako alla Cina, stessa cosa capitata al Tagikistan nel 2011 per quando concerne alcuni territori nella regione del Gorno-Badakhshan. L’atavico astio kirghizo nei confronti del dragone, poi, venne riacceso nel 2001 dagli eventi che avrebbero portato, nel 2005, alla “rivolta dei tulipani” e alla successiva rimozione del Presidente Askar Akaev, accusato di voler cedere porzioni di territorio a Pechino all’insaputa del Parlamento. A corroborare ulteriormente le percezioni negative vi è l’atteggiamento sospettoso tenuto da diversi cittadini centroasiatici nei confronti della comunità cinese e alla sua classe dirigente, tradizionalmente chiusa e resasi impenetrabile anche tenendo conto della sola barriera linguistica, ostacolo facilmente aggirato, invece, dall’élite russofona. A generare sistematicamente sospetto è la “generosità” con la quale la Cina dispensa aiuti economici a Paesi più in difficoltà come il Kirghizistan, il che rende ancora più difficile il compito a Pechino. 

Molto interessante, dal punto di vista dei dati statistici, risulta essere quanto riscontrato da un recente sondaggio tenuto dall’Istituto Gallup in relazione alla percezione dell’immagine cinese in Kazakhstan, Kirghizistan, Tagikistan ed Uzbekistan: la percentuale di disapprovazione nei confronti di Pechino è salita, nell’arco 2006-2018, dal 18 al 26%, mentre quella di approvazione è scesa di circa cinque punti percentuali. In questo quadro a tinte fosche, però, la Cina ha motivi per gioire: prendendo in considerazione l’età degli intervistati, infatti, Pechino trova un riscontro molto positivo soprattutto tra i giovani sotto i 30 anni d’età. A riprova del fatto che, come indicato da una recente pubblicazione di Marlene Laruelle, le idee, le percezioni ed i pensieri della generazione nata dopo il 1991 saranno decisivi per capire quale sarà il futuro assetto politico-sociale politico dell’Asia centrale. Risulta evidente considerare la vecchia generazione ancora pregna di un sostrato di mentalità sovietica che difficilmente contribuirà ad intessere delle relazioni basate sul sospetto. Queste considerazioni non sono passate inosservate all’establishment cinese. A riprova di ciò, il crescente livello di soft power che Pechino sta esercitando nella regione: istituti di lingua, scambi culturali, università e centri di ricerca strategica e scientifica (come i vari Istituti Confucio) rigorosamente made in China spopolano offrendo a sempre più studenti kazaki (circa 12mila nel 2018) l’opportunità di realizzarsi professionalmente proprio nel Celeste Impero. Con il passare degli anni le contingenze storiche obbligheranno sia la Cina che i Paesi centroasiatici ad intrattenere un rapporto più aperto, meno sospettoso e più inclusivo. Le necessità economiche e le sfide globali lo richiederanno necessariamente. 

In questo senso, la Via della Seta si dimostra essere più impervia di quanto Pechino magari si aspettava. Al contempo, però, potrà essere un’occasione, per il continente eurasiatico, di superamento di forti criticità che difficilmente la Russia con le sue sole forze sarebbe riuscita ad appianare. 




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