Nuove tensioni nell'enclave di Sokh: alle radici di un problema irrisolto (di Fabio Indeo)

La recente esplosione di violenza che ha coinvolto i residenti di due villaggi al confine tra Uzbekistan e Kirghizistan ha riacceso i riflettori su un problema irrisolto che continua a condizionare le relazioni tra nazioni centroasiatiche: la presenza di enclaves territoriali, ovvero parti del territorio di uno stato circondate dal territorio di un altro stato.

Il conflitto in questione è avvenuto ai primi di giugno nell'enclave di Sokh, universalmente riconosciuta come uno dei casi più emblematici nell'intricato mosaico etnico centroasiatico: infatti, Sokh è un enclave sotto la sovranità uzbeka, in territorio kirghiso (nella regione di Batken), popolata da oltre 70.000 persone il 90% delle quali di etnia tagica, dislocata in 19 insediamenti. 

La competizione per il controllo di un corso d'acqua è stato il casus belli che ha portato agli scontri tra le due comunità, causa frequente e uno dei maggiori detonatori di conflittualità sociale in un contesto connotato dalla scarsità delle risorse naturali (acqua e possesso della terra) e sovrappopolamento. Infatti, non esistendo un accordo tra governi, al territorio di Sokh si applica la legge kirghisa sui pascoli, che impedisce l'utilizzo del suolo nazionale per la pastorizia agli stranieri (ai non kirghisi), marginalizzando economicamente gli abitanti di questa enclave.

Alla base di questa problematica vi è l'opera di “ingegneria sociale” posta in essere dai sovietici nel corso degli anni venti del secolo scorso: dopo aver assoggettato i territori dell’Asia Centrale, i bolscevichi tracciarono arbitrariamente dei confini secondo una strategia politica ed economica legata ai loro interessi, disinteressandosi dell’equilibrio tra etnie differenti. Nel 1924 Stalin gettò dunque le basi territoriali per la costituzione delle attuali cinque repubbliche centroasiatiche, creando artificiosamente e a tavolino dei confini tra stati in un territorio chiamato sino ad allora Turkestan.

La valle del Ferghana - regione territorialmente incastonata tra Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan - rappresenta una delle situazioni maggiormente intricate. Storicamente la valle del Ferghana è sempre esistita come regione unica e solo con l'indipendenza delle repubbliche centroasiatiche venne suddivisa tra le tre nazioni. Le tensioni nella valle sono legate al suo sovra popolamento che determina un accesa competizione tra i gruppi etnici per il controllo delle risorse agricole, dell’acqua, della terra, accresciutasi dopo il 1991 in quanto al collasso delle industrie sovietiche ha coinciso una crescente importanza dell’agricoltura.

La rivalità tra gruppi etnici per l'accesso alle limitate risorse e l'adozione di politiche discriminatorie sul piano linguistico-culturale e scarsamente inclusivo-rappresentative nei confronti delle minoranze alimentano tensioni tra i vari gruppi etnici della valle.

Inoltre, la situazione della valle del Ferghana  - considerata la “culla” dell’islam radicale - appare  ulteriormente complicata dalla presenza di enclaves territoriali al suo interno. Nella valle infatti vi sono circa settanta enclaves la cui esistenza appare insostenibile nel lungo periodo, in quanto occorrerebbe trovare soluzioni durature come l’applicazione di una giurisdizione congiunta, concessione della doppia cittadinanza e rappresentanza politica, creazione di libere zone economiche. Nel territorio kirghiso vi sono sette enclaves, due appartengono al Tagikistan (Varukh e un’altra a nord di Isfana) e cinque all’Uzbekistan, tra le quali l'enclave di Sokh.

Contrariamente al passato e in linea con il nuovo clima di cooperazione regionale promosso principalmente dalle politiche di apertura adottate dal nuovo presidente uzbeko Mirziyoyev, Uzbekistan e Kirghizistan sono intervenute rapidamente per cercare di comporre pacificamente il conflitto. Occorre ricordare come nel 2017 le due nazioni raggiunsero un accordo per la regolamentazione dell'80% del confine condiviso, che testimonia la crescente fiducia reciproca sia sul piano bilaterale che all'interno di un ottica più ampia, come quella della cooperazione regionale.

Il vice primo ministro kirghiso Boronov e il primo ministro uzbeko Aripov si sono recati a visitare i villaggi coinvolti ed hanno preso atto delle lamentele della popolazione locale, promettendo di intervenire per la risoluzione delle problematiche esistenti.

Il governo uzbeko ha promesso di investire milioni di dollari nell'enclave, con l'obiettivo di promuovere lo sviluppo economico ed infrastrutturale, in modo da creare posti di lavoro ed opportunità che consentano di arginare l'emigrazione verso la Russia e di disinnescare focolai di tensione sociale. 

Una delle proposte di maggior impatto è stata formulata nella sfera educativo-culturale, permettendo ai giovani diplomati residenti a Sokh di sostenere in lingua tagika gli esami di accesso all'università. Si tratta di un considerevole passo in avanti nel riconoscere l'esistenza di una seria problematica - la tutela dell'identità linguistica e culturale - foriera di tensioni e conflittualità.

Il premier uzbeko Aripov si è dimostrato disponibile ad affrontare un altro notevole problema, comune a tutte le enclaves centroasiatiche, ovvero l'isolamento politico e territoriale dalla madrepatria e gli innumerevoli ostacoli alla circolazione, a causa dei frequenti checkpoints e controlli. La Sokh-Rishton è l'unica strada che permette un collegamento tra Sokh e il territorio della repubblica uzbeka, ma questa non è aperta ed è posta sotto stretto controllo dalle forze di sicurezza, poiché il Kirghizistan è membro dell'Unione Economica Euroasiatica - a differenza dell'Uzbekistan, il quale comunque ha ottenuto nel 2020 lo status di osservatore - quindi non viene garantita  la  libera circolazione di beni e persone tra gli stati come all'interno dell'Unione.

Tashkent e Biskhek sembrano muoversi nella giusta direzione al fine di migliorare lo status politico, economico e culturale delle enclaves. È significativo che in tal senso si sia espresso anche l'Ambasciatore John MacGregor, coordinatore di progetti nell'ufficio dell'Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa di Tashkent, il quale ha sottolineato come l'iniziativa del governo uzbeko in occasione dei fatti di Sokh rappresenti un esempio da seguire ed una buona pratica nell'ambito della prevenzione dei conflitti. 




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