Possono gli Stati Uniti rafforzarsi in Uzbekistan? (di Pierluigi Franco)

Un comunicato del Dipartimento di Stato Usa ha riferito, il 22 aprile scorso, di un colloquio tra il Segretario di Stato americano, Antony J. Blinken, e il ministro degli Esteri dell’Uzbekistan, Abdulaziz Kamilov. Nella nota - stilata dal portavoce del Dipartimento ed ex analista della Cia, Ned Price - si informava che Blinken ha ringraziato Kamilov “per il sostegno dell’Uzbekistan ai negoziati di pace in Afghanistan e all’integrazione dell’Afghanistan nello spazio economico dell’Asia Centrale” e ha “elogiato la crescita delle relazioni bilaterali” tra Washington e Tashkent.
A rafforzare il messaggio è stato poi su Twitter lo stesso Blinken: “oggi il ministro degli Esteri dell'Uzbekistan Kamilov e io abbiamo discusso della lodevole crescita delle nostre relazioni bilaterali negli ultimi anni. Attendo con impazienza di lavorare insieme per sostenere le riforme e costruire la connettività regionale, anche con l'Asia meridionale”.
Di per sé parrebbe un appunto di cordiale carattere diplomatico, ma a dare un forte significato alla cosa sembrano essere la tempistica, poiché l’annuncio arriva pochi giorni dopo l’avvio del ritiro Usa dall’Afghanistan, e il quadro che delinea una nuova strategia americana sull’Asia Centrale, territorio tradizionalmente legato alla Russia e alla Cina.
Del 4 maggio è poi un secondo comunicato che riferisce di un altro incontro, tenuto il 23 aprile, tra Blinken e i ministri degli Esteri di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Nel corso della riunione, come era prevedibile, si è discusso soprattutto di Afghanistan in previsione del completo ritiro americano dal Paese entro il prossimo 11 settembre. Nel lungo elenco di punti concordati, oltre ai richiami di carattere infrastrutturale sull’energia, spicca soprattutto lo “sviluppo della cooperazione in materia di sicurezza tra gli Stati Uniti e i paesi dell'Asia Centrale come mezzo per promuovere la stabilità e la sicurezza regionale e per contrastare le minacce transfrontaliere provenienti dall'Afghanistan”.
Un quadro di rinnovata attenzione statunitense per l’Asia Centrale che sembra trovare ragione in un servizio pubblicato dal New York Times il 15 aprile, appena una settimana prima degli incontri organizzati da Blinken. Secondo il giornale, infatti, gli Stati Uniti vorrebbero riaprire basi militari nell’area centrasiatica dopo l’uscita dall’Afghanistan. Un’idea che sembra essere confermata proprio dal rafforzamento dei rapporti con quelle repubbliche ex sovietiche.
La prima cosa che viene da chiedersi è perché il dialogo con l’Uzbekistan ha preceduto quello con gli altri Paesi centrasiatici. Una probabile risposta può senz’altro venire dal fatto che si tratta di un Paese che non fa parte dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (Csto), l’alleanza difensiva a guida russa di cui fanno invece parte Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan (oltre a Russia, Armenia e Bielorussia). Questo mancato legame strategico con Mosca, nell’ottica americana, potrebbe favorire un ritorno dei militari statunitensi nel territorio uzbeko che erano stati costretti a lasciare nel 2005, dopo uno stazionamento di quattro anni nella base aerea ex sovietica di Karshi-Khanabad, a causa di contrasti con l’allora presidente Islom Karimov.
La strategia statunitense avviata in epoca Biden sembra dunque riprendere quell’attenzione per lo scacchiere mondiale che aveva caratterizzato l’epoca Obama attraverso Hillary Clinton, incentrata a dare scacco soprattutto alla Russia come nel caso dell’Ucraina. Ma la crescita di attenzione su un’area molto importante per Russia e Cina arriva anche dopo il periodo di Trump, che si era essenzialmente fossilizzato sull’Iran senza dare troppi grattacapi a Mosca.
E’ facile pensare che quella avviata da Biden sia una strategia tutt’altro che gradita a Russia e Cina, sia pure per motivi sostanzialmente diversi. Per Mosca, infatti, una presenza americana in Asia Centrale si inquadrerebbe in quell’ottica di accerchiamento della quale sente il peso da tempo. La Russia si considera infatti già minacciata sul fronte occidentale, dal confine delle Repubbliche Baltiche a quello dell’Ucraina, e con la Bielorussia, ultima alleata, continuamente in bilico. Con i Paesi dell’Asia Centrale resta ancora un forte legame, difficile da spezzare dopo trecento anni di comune appartenenza, dovuto anche al gran numero di centrasiatici che vivono e lavorano in territorio russo portando notevoli rimesse ai rispettivi Paesi. Un legame che dovrebbe implicare anche fiducia. Ma la fiducia fine a se stessa non è propria dello spirito russo che, invece, sembra ritrovarsi sempre nelle parole di Lenin secondo le quali “la fiducia è bene, ma il controllo è meglio”, dove la parola “controllo” assume facilmente un doppio significato. Ed è difficile credere che Mosca non sia preoccupata di perdere lo storico controllo su quell’area.
Per Pechino il discorso è in parte diverso, più economico che strategico, anche se ha sempre mostrato di non gradire la presenza americana troppo vicina ai suoi confini. Qui si tratta di avere una presenza ingombrante che rischia di mettere i bastoni tra le ruote al grande progetto cinese della Nuova Via della Seta, di cui il corridoio dell’Asia Centrale è elemento essenziale. E’ noto, infatti, che quel progetto preoccupa non poco Washington che lo vede come una minaccia alla sua economia e ai suoi mercati, ma anche al controllo geopolitico verso occidente.
La prevedibile pressione statunitense per riposizionare basi militari in Asia Centrale è ufficialmente legata ai rischi che potranno arrivare dall’Afghanistan. Infatti, con lo sdoganamento dei Talebani dopo gli accordi di Doha del 2020, è facile prevedere il loro prossimo ritorno al potere sbarazzandosi in un soffio delle fragili istituzioni attuali. E, secondo alcuni analisti, tornerebbero più potenti di prima, anche in forza dei finanziamenti di cui hanno sempre goduto, in particolare da qualche Stato mediorientale, e che nessuno ha mai fermato. Si tratta di un fatto temuto in tutti i Paesi centrasiatici le cui etnie, soprattutto uzbeke e tagike, sono massicciamente presenti da sempre in Afghanistan. Ciò comporta un continuo stato di allerta sui rischi dell’estremismo islamico che ha già fatto pesare più volte la propria presenza nell’area. Quello della sicurezza, quindi, sembra tornare ad essere un punto nodale. E proprio questo potrebbe favorire l’azione di Blinken.