Putin e l'Asia Centrale: un'analisi storica (di Pierluigi Franco)

Sono molti i segnali che sembrano mostrare un forte cambio di orientamento in atto nei Paesi dell’Asia Centrale ex sovietica, delineando un nuovo quadro di riavvicinamento a Mosca osservato dalla maggior parte degli analisti. Uno scenario emerso chiaramente dai disordini di inizio anno in Kazakistan che hanno visto l’intervento dei paracadutisti russi, su precisa richiesta di aiuto del presidente Qasym-Jomart Toqaev, per sedare la rivolta. Non sembra essere un caso che questa richiesta di aiuto kazaka sia arrivata alcuni giorni dopo l’intervento del presidente russo, Vladimir Putin, al vertice della Comunità degli Stati indipendenti (Csi) che si è svolto il 28 dicembre scorso a San Pietroburgo in occasione del trentennale dell’organizzazione. 

A convocare la riunione dei Paesi ex sovietici era stato lo stesso Putin, sulla spinta di una nuova strategia che punta a riconquistare influenza nell’area asiatica nel momento in cui sembra farsi sempre più pressante il fronte occidentale. E’ probabilmente l’effetto anche di un cambiamento della politica degli Stati Uniti, che sembrano aver abbandonato l’idea di conquistare spazi in Asia Centrale per tornare invece sul pericoloso fronte ucraino particolarmente caro a Joe Biden fin dai tempi in cui era vice presidente di Barack Obama, tanto che il figlio Hunter Biden aveva in Ucraina consistenti interessi economici ed era nel board di una importante società energetica in combutta con potenti oligarchi locali.

Al vertice di San Pietroburgo - al quale erano presenti i leader  di Azerbaigian, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan,  Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan - Putin ha sollecitato rapporti più stretti tra i Paesi dell’ex Urss, sottolineando “i legami mantenuti dai giorni dell’Unione Sovietica che hanno avuto un impatto positivo”. Il leader del Cremlino sa bene che nei Paesi dell’Asia Centrale è sempre più diffuso un sentimento di nostalgia per i tempi passati, tenendo presente che tutta l’area ha fatto parte per centinaia di anni della Grande Russia zarista prima e dell’Unione Sovietica poi. 

Oltre alle lingue locali, in Asia Centrale si parla regolarmente il russo e a Mosca fanno riferimento milioni di lavoratori (nel 2019 erano 11 milioni) che aiutano i propri Paesi attraverso ingenti rimesse di denaro, anche se la pandemia da Covid-19 ha costretto molti di essi a tornare in patria accrescendo la diffusa crisi economica.

D’altra parte, con la disgregazione dell’Urss nel 1991, i Paesi centrasiatici non hanno visto gli auspicati vantaggi promessi dall’Occidente. Il distacco da Mosca non ha garantito la spinta democratica ed economica che ci si aspettava, ha anzi accresciuto i problemi, tenendo presente che ai tempi dell’Urss una forma di indipendenza era già sostanzialmente garantita dalla consuetudine di nominare ai vertici di ciascuna Repubblica federativa elementi appartenenti alle principali etnie locali (cosa alla quale venne incautamente meno soltanto Michail Gorbaciov nel dicembre 1986 rimuovendo in Kazakistan il benvoluto Dinmuchamed Kunaev e sostituendolo con il russo Gennadij Kolbin, causando una rivolta con centinaia di morti). Inoltre in epoca sovietica gli aiuti e l’assistenza alla produzione, soprattutto agricola, erano sempre garantiti dal potere centrale alle cooperative mentre ora prevale per lo più l’arte di arrangiarsi che troppo spesso deve fare i conti anche con tangenti e corruzione che mandano sul lastrico i piccoli produttori. Inoltre i dati mostrano che, dalla caduta dell’Unione Sovietica nel 1991, c’è stato un crollo del 50% del reddito delle famiglie in Tagikistan, Turkmenistan e Kirghizistan e di circa il 30% in Uzbekistan, mentre pochi oligarchi sono riusciti ad arricchirsi enormemente in Kazakistan e Turkmenistan grazie alla vendita di petrolio e gas senza alcun beneficio per la popolazione. 

Altro motivo di rimpianto per i popoli dell’Asia Centrale è il grave peggioramento della situazione sanitaria che ha fatto scendere notevolmente l’aspettativa di vita in epoca post-sovietica, poiché non esiste più il sistema di assistenza assicurata dallo Stato, così come sono venuti meno altri ammortizzatori sociali ed è sceso l’accesso all’istruzione assieme alla possibilità di fruizione dei trasporti e delle infrastrutture di base.

E’ proprio nella consapevolezza di questo scenario che Putin ha sostenuto l’esigenza di “conservare le  opportunità e i vantaggi competitivi ereditati dal passato che consentiranno di superare le difficoltà”, facendo poi riferimento alla necessità di integrazione soprattutto “per la sicurezza nazionale e l'economia”. Un chiaro richiamo ai tempi dell’Urss che ha fatto sobbalzare molti osservatori occidentali.

Di certo dopo i disordini di inizio anno il Kazakistan, la più grande Repubblica centrasiatica, vede rafforzarsi il ruolo di  Toqaev dopo il declino della famiglia del vecchio leader Nursultan Nazarbaev. D’altra parte la stessa formazione di Toqaev, legata a doppio filo a Mosca, mostra come non si tratti di un politico dell’ultima ora, ma anzi di un diplomatico attento e dotato di un notevole bagaglio culturale. Formatosi dopo la laurea in Scienze Politiche all’Accademia diplomatica del Ministero degli Esteri dell’Urss, è entrato molto giovane nella diplomazia di Mosca sotto l’ala di Andrej Gromiko. La sua brillante carriera lo ha portato fino ai vertici delle Nazioni Unite dove ha svolto l’incarico di Direttore Generale dell’Ufficio Onu a Ginevra. Dal punto di vista politico, in Kazakistan è stato a capo del Governo dal 1999 al 2002 e successivamente per due volte Presidente del Senato prima di sostituire alla presidenza della Repubblica il vecchio Nazarbaev. Oggi molti lo dicono vicino a Putin e forse, in un Paese dove è diffusa tra la gente la nostalgia per l’Urss, questo può diventare motivo di consenso.

Ma la nostalgia per i tempi in cui erano parte di una grande potenza è diffusa un po’ in tutti i Paesi centrasiatici, dove le contraddizioni hanno sempre caratterizzato gli umori popolari, a cominciare da quella religiosa in un’area dove i musulmani sunniti sono la grande maggioranza dei 75 milioni di abitanti e sono sempre stati tollerati dal regime sovietico, ben conscio dei rischi derivanti dal contrastarli. Il ritorno alla nostalgia sovietica è però in gran parte dovuto anche agli errori compiuti dagli Stati Uniti dopo la caduta dell’Urss. In un primo tempo, infatti, l’illusione del sogno occidentale aveva caratterizzato i Paesi dell’Asia Centrale ai quali erano stati prospettati democrazia e grande crescita economica. Poi, al di là delle basi militari che gli americani avevano affittato per motivi logistici legati alla guerra in Afghanistan, tutti gli aiuti promessi non ci sono stati.

L’occhio statunitense era rivolto essenzialmente alle risorse naturali dell’area senza tenere in alcun conto le esigenze della popolazione e aprendo un dialogo affaristico soprattutto con ricchi e disonesti oligarchi locali. Ma l’idea di mettere mano principalmente alle risorse del Mar Caspio si era poi scontrata con le difficoltà di dover fare i conti con Russia e Iran, facendola di fatto accantonare. Infine l’abbandono improvviso dell’Afghanistan e il via libera americano al regime dei Talebani, visti con grande timore dai Paesi centrasiatici confinanti sempre in guardia contro le derive islamiste, ha definitivamente facilitato il riavvicinamento a Mosca.

Ora, dunque, Putin torna in qualche modo a sognare una Grande Russia, anche se in Asia Centrale deve fare i conti con la Cina sempre più presente grazie anche al progetto di “Nuova Via della Seta”, ai cospicui investimenti e all’ingente indebitamento dei Paesi centrasiatici nei suoi confronti. Sul piatto rimane però un importante punto a favore del leader del Cremlino: i cinesi, sempre distaccati e mai integrati, non sono ben visti dalla popolazione dell’area che invece, nel corso dei secoli, ha imparato a convivere con i russi e a condividerne la lingua. Ma un altro ostacolo potrebbe presentarsi a Putin: la Turchia di Erdogan e la sua politica di sottile penetrazione nei Paesi turcofoni. Capitolo silenzioso, ma ancora aperto in attesa di sviluppi.  


Pierluigi Franco




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