Terrorismo e jihadismo in Asia Centrale, tra obiettivi globali e radici regionali (di Fabio Indeo)

Ad oltre venti anni dall’attentato dell’11 settembre 2001, la minaccia terrorista del jihadismo e dell’islamismo radicale nella regione centroasiatica è progressivamente mutata, con la comparsa di nuovi attori e il definitivo declino di attori e movimenti tradizionalmente attivi nell’area. 

L’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 rappresentò un vero e proprio spartiacque geopolitico in Asia Centrale, poiché per la prima volta nella storia le truppe degli Stati Uniti e della NATO fecero la loro comparsa nello spazio post-sovietico, ottenendo in concessione dalle repubbliche centroasiatiche delle basi militari (e altre facilitazioni come il diritto di sorvolo o di rifornimento), funzionali per supportare la campagna militare in Afghanistan finalizzata ad estirpare la minaccia terroristica di Al Qaeda e a rovesciare il governo dei Taliban, che aveva offerto protezione ai jihadisti.

Questa esigenza statunitense combaciava con gli intessi strategici delle cinque repubbliche centoasiatiche, in quanto Washington offriva un nuovo ombrello securitario di protezione, che appariva necessario per fronteggiare la minaccia di Al Qaeda e del terrorismo jihadista, soprattutto perché fonte d’ispirazione e di supporto militare ai gruppi terroristici prettamente centroasiatici che intendevano destabilizzare la regione e che avevano trovato rifugio temporaneo in Afghanistan.

Queste preoccupazioni erano il prodotto del progressivo deterioramento dello scenario securitario centroasiatico tra la fine degli anni novanta e il 2001, in quanto l’ascesa al potere dei Taliban venne percepita come una seria minaccia alla stabilità delle leadership politiche laiche e secolari dell’Asia Centrale.
Soprattutto l’Uzbekistan divenne obiettivo di diverse azioni terroristiche. Le incursioni transfrontaliere degli appartenenti al Movimento Islamico dell’Uzbekistan (MIU) tra il 1999 e il 2000 – che dalle loro basi nella porzione tagika della Valle del Ferghana conducevano azioni armate in Uzbekistan (e Kirghizistan) con l’obiettivo di rovesciare l’autocrazia secolare del presidente Karimov e di instaurare un governo islamico - rappresentavano una minaccia destabilizzante non solo per l’Uzbekistan ma per l’intera regione: nel 1999 un fallito attentato contro Karimov nella capitale uzbeka Tashkent (che provocò 20 vittime, e che venne attribuito al MIU), spinse il presidente uzbeko ad inasprire la repressione nei confronti dell’islamismo radicale. I combattenti del MIU - tra i quali il comandante militare Juma Namangani e l’ideologo Tahir Yuldashev - trovarono rifugio in Afghanistan, dove si legarono ad Al Qaeda e ai Taliban, supportando le loro attività. In questo frangente si delineò il mutamento ideologico del MIU, che da obiettivi nazionali (l’abbattimento del potere secolare di Karimov) iniziò a perseguire obiettivi transnazionali (sul modello di Al Qaeda e del jihadismo globale), ovvero lottare per la creazione di un califfato islamico in Asia Centrale, progetto che implicava l’abbattimento dei confini e delle frontiere statuali tra le cinque repubbliche. Oltre al MIU, il movimento panislamico Hizb ut-Tahrir al Islami (partito della liberazione islamica) rappresentava un’altra percepita minaccia all’ordine costituito

Le preoccupazioni sulla vulnerabilità dell’assetto securitario centroasiatico, a causa delle minacce esistenti, spinsero Russia e Cina a consolidare le due organizzazioni multilaterali di sicurezza regionale, in concomitanza dell’intervento americano: nel 2001 venne istituzionalizzato il Forum di Shanghai nella forma dell’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai (a guida sino-russa, con le quattro repubbliche centroasiatiche eccetto il Turkmenistan) per combattere i “tre diavoli” (estremismo religioso, il separatismo etnico e il terrorismo), mentre nel 2002 venne riorganizzato il trattato di Tashkent con la creazione dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC, che include Russia, Kazakhstan, Tagikistan, Kirghizistan, Armenia e Bielorussia) le cui finalità erano la lotta contro il terrorismo e il narcotraffico.
La cooperazione militare con gli Stati Uniti e la NATO permise all’Uzbekistan di estirpare la minaccia del MIU, che venne da subito inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche, mentre i bombardamenti dei droni statunitensi nelle montagne tra Afghanistan e Pakistan decapitarono il movimento provocando prima la morte di Namangani (ottobre-novembre 2001) e successivamente quella di Yuldashev (nel 2009). Gli attentati a Tashkent e a Buchara del 2004 – rivendicati dagli estremisti islamici dell’Islamic Jihad Union (composto da fuoriusciti del MIU) e caratterizzati da una sostanziale novità per i canoni del terrorismo centroasiatico, ovvero l’utilizzo di autobombe e di due donne kamikaze che si fecero esplodere nel bazar di Chorsu - e la rivolta nella città di Andijan (nella parte uzbeka della valle del Ferghana) nel 2005 evidenziavano la necessità di sicurezza della nazione centroasiatica di fronte alla minaccia islamista e l’incapacità statunitense di fornire protezione, condizioni che portarono ad un temporaneo riorientamento geopolitico verso la Russia come garante della sicurezza regionale.

In linea generale, possiamo osservare che in trent’anni di indipendenza, in Asia Centrale si è verificato un numero esiguo di attacchi terroristici attribuibili all’islamismo radicale, in gran parte originati dalla mancata soluzione delle problematiche economico-sociali esistenti nella regione - come la povertà, l’autoritarismo e il capillare controllo sociale, la repressione della libera manifestazione religiosa, la mancanza di forme di rappresentatività politica e sociale - e che potenzialmente possono alimentare fenomeni di reazione violenta e di adesione alla causa dell’estremismo politico-religioso. Secondo uno studio condotto da Edward Lemon, nel decennio 2008-2018 ci sono stati 19 attacchi terroristici in Asia Centrale, che hanno provocato 138 vittime, la maggior parte delle quali appartenenti alle forze di sicurezza (78), seguite da terroristi (49) e civili (11): la metà di questi attacchi si è registrato in Kazakhstan (la nazione economicamente più prospera in Asia Centrale, grazie alle rendite petrolifere), mentre metà delle vittime in Tagikistan. 

Dallo studio si evince in particolare come le forze di sicurezza, esercito, polizia abbiano rappresentato i principali obiettivi degli attacchi terroristici in quanto espressione delle autocrazie al potere responsabili del pervasivo controllo sociale e della repressione del dissenso.

Un fattore incontrovertibile è che a partire dal 2014-2015, il ritorno in patria dei militanti centroasiatici - addestrati ed attivi militarmente nel territorio dell'autoproclamato califfato islamico tra Siria ed Iraq - ha sicuramente contribuito a rivitalizzare la minaccia del terrorismo jihadista ed ha messo seriamente in allarme i governanti dell’area, preoccupati per la potenziale destabilizzazione delle fondamenta politico-istituzionali laiche degli stati - per la paventata minaccia di instaurare un califfato islamico – oltre a mettere in discussione l'autorità delle satrapie al potere. I foreign fighters centroasiatici reclutati dallo Stato Islamico sono andati ad ingrossare le fila dei  tradizionali gruppi islamico radicali presenti nella regione affiliati ad Al Qaeda, come il gruppo kazako Jund Al-Khalifah (che rivendicò la responsabilità degli attentati terroristici nella città petrolifera di Aktobe nel 2011), i tagiki di Jamaat Ansarullah e soprattutto il MIU, che tramite il suo leader Usman Ghazi nel settembre 2014 dichiarò fedeltà ad Is. La creazione del Wilāyat (provincia) del Khorasan - che dovrebbe includere Pakistan, Afghanistan, Asia Centrale ed Iran - e quindi il radicamento del movimento terrorista-jihadista dell’IS-K in Afghanistan ha ulteriormente complicato il quadro e il rischio di destabilizzazione dell’intera regione.

Nonostante la presenza di militanti centroasiatici disposti ad agire sotto la copertura ideologica e il supporto economico-militare dell’IS, in realtà non si rileva una recrudescenza di attentati nella regione, anche se risulta interessante osservare e riflettere sulle profonde implicazioni e la valenza simbolica di questi atti di terrorismo legati al radicalismo islamico.

L'esplosione all'ambasciata cinese di Bishkek (agosto 2016) rivelava un’evidente matrice transregionale, in quanto l'esplosione dell'auto condotta da un kamikaze - prima volta nella storia kirghisa - che ha provocato il ferimento di 6 persone, è stata un azione congiunta ordita da esponenti di Kateeba Tawhid wal Jihad (un gruppo di foreign fighters kirghisi di etnia uzbeka che combatterono in Siria ed Iraq) e del Partito Islamico del Turkestan (musulmani cinesi della repubblica autonoma dello Xinjiang) organizzata e finanziata da  Al Nusra-Al Qaeda.

In Kazakhstan, nel 2016 diversi attacchi terroristici ad Aktobe ed Almaty (oltre trenta vittime) rivelavano il proliferare di terroristi jihadisti locali che traevano ispirazione dallo Stato Islamico, anche se alla radicalizzazione giovanile sembrano contribuire le condizioni economico-sociali, ovvero la lenta ridistribuzione della ricchezza derivante dalle esportazioni di petrolio, in un contesto di elevata disoccupazione e mancanza di prospettive.

Parallelamente, tra il 2016 e il 2017 si è rilevato un crescente coinvolgimento di militanti provenienti dalle repubbliche centroasiatiche in attentati compiuti in Europa e negli Stati Uniti: un cittadino kirghiso e un cittadino kirghiso di etnia uzbeka vennero coinvolti nell'attentato suicida alla metropolitana di San Pietroburgo, mentre erano cittadini uzbeki gli autori dell’attentati ad Istanbul (all'aeroporto internazionale e al night club Reina),  Stoccolma e New York (estremisti uzbeki che hanno guidato auto contro la folla), episodi che evidenziavano come la pericolosità dei jihadisti centroasiatici non poteva essere circoscritta all'ambito regionale, ma era destinata invece ad avere un impatto globale.

La presa del potere dei Taliban in Afghanistan e la proclamazione dell’Emirato Islamico hanno rinfocolato i timori dei governanti centroasiatici, preoccupati da potenziali infiltrazioni di gruppi armati che possano condurre azioni destabilizzanti e le leadership politiche secolari attualmente al potere. Nonostante i Taliban abbiano cercato di rassicurare gli attori regionali sulle loro intenzioni ed obiettivi politici nazionali, e di non avere delle mire transnazionali, oltre al loro impegno a combattere gruppi terroristici (soprattutto IS-K) che possono rappresentare una minaccia alla sicurezza dei paesi confinanti, evitando un loro radicamento in Afghanistan, gli attentati all’aeroporto di Kabul hanno dimostrato le difficoltà dei Taliban nel contenere le fazioni jihadiste e il potenziale rischio di contagio oltre confine. A rafforzare questi timori, la presenza di militanti di etnia centroasiatica non soltanto nelle fila di IS-K ma anche a supporto dei Taliban, all’interno di gruppi terroristici come il “risorto” Movimento Islamico dell’Uzbekistan e Jamaat Ansarullah, i cui militanti di etnia tagika avrebbero avuto in concessione dai Taliban il controllo delle province settentrionali al confine con il Tagikistan.

La lotta contro il terrorismo costituisce sicuramente una priorità di rilievo nell’agenda securitaria delle repubbliche centroasiatiche, e delle superpotenze geopolitiche regionali Russia e Cina, preoccupate sia della stabilità interna che della protezione dei propri interessi strategici nella regione (dalle infrastrutture ed investimenti in ambito BRI al ruolo di garante della sicurezza regionale e di polo d’integrazione economica intrapreso da Mosca attraverso l’OTSC e l’Unione Economica Euroasiatica): tuttavia, la strumentale enfatizzazione e manipolazione della minaccia terrorista-jihadista (non si hanno stime precise sul numero dei centroasiatici arruolatisi con Is e quelle esistenti sono divergenti) sembra rappresentare una costante dell’approccio securitario delle repubbliche centroasiatiche, efficace strumento per legittimare politiche autocratiche, soprattutto se paragonato al numero limitato degli atti terroristici e ai reali legami con la rete jihadista globale.

Fabio Indeo

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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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http://www.eu/ita/archivio/Terrorismo-e-jihadismo-in-Asia-Centrale--tra-obiettivi-globali-e-radici-regionali---di-Fabio-Indeo-1150-ITA.asp 2022-05-06 daily 0.5