Transizione green: 10 anni di volatilità per il petrolio (di Massimo Nicolazzi)

Il prezzo del barile. A gennaio 2020 era a 63,50; ad aprile 2020 era a 18,55 (qui ci riferisce al Brent, che il WTI finì persino in prezzo negativo a -37; ma per quello occorre rivolgersi alle baroccherie dei futures e non al mercato); e mentre scrivo rieccolo dalle parti di 63,50.

Adesso i consumi: 101,18 milioni di barili/giorno nel 2019; 92,29 nel 2020; 97,68 nel 2021 (stima); e in proiezione 101,17 nel 2022 (Fonte IEA).

A guardare questi numeri, l’impressione è che in punto di petrolio il virus anziché essere araldo di new normal sia stato solo una parentesi della normalità. Il prezzo è già ritornato dov’era; e coi consumi ci si sta per tornare. Per carità, magari ne esce con qualche ammaccatura. Il petrolio è anzitutto mobilità e trasporti. Lo smartworking non gli è amico; e il crollo dei trasporti aerei (cui destinava l’8% del proprio consumo) è il principale responsabile del fatto che coi consumi non si sia ancora tornati dove si era. Però niente, sembrerebbe, di strutturale. La crisi è passata e la convalescenza sta per finire.

I trend di lungo periodo
Questa è la foto che una volta si sarebbe detta congiunturale. Poi non c’è dubbio che per ragioni estranee alla pandemia il ritorno alla presunta normalità non possa che essere provvisorio. La transizione energetica incombe. Però i tempi della provvisorietà sono ad oggi giusto modello; e i tempi dello svilupparsi della transizione poco più che un’astrazione. Possiamo immaginare che motori elettrici e assimilati sostituiranno prima o poi quelli a scoppio. I numeri però suggeriscono che non sarà domattina. Il parco auto che circola nel mondo è grosso modo 1,2 miliardi di veicoli; le auto elettriche a fine 2019 19 milioni; e il tasso di sostituzione del parco circolante sotto il 10% all’anno (circa 100 milioni/anno di nuove immatricolazioni). Aggiungete che a regola di bazzica (IEA) ci vogliono 200 milioni di auto elettriche per togliere dal mercato 2 milioni di barili/giorno di petrolio; che i tempi del rimpiazzo dei veicoli pesanti non hanno ragione di prevedersi più brevi; e che il tempo che ci vorrà per far funzionare un petrolchimico senza petrolio e insegnare all’idrogeno (?) a prendere l’aereo saranno probabilmente ancora più lunghi.

Gli scenari più ricorrenti ci danno così il sorpasso dell’elettrico sul motore a scoppio (per nuove immatricolazioni nell’anno, non per numero assoluto di veicoli circolanti) grosso modo in vent’anni; e nel decennio in corso un aumento seppur poco sensibile dei consumi di petrolio ancora per il prossimo quinquennio (con l’anno di picco della domanda variamente collocato tra 2027 e 2030) e però a seguire non un’immediata e magari ripida discesa, ma un plateau produttivo attestato un po’ sopra i 100 milioni di barili/giorno. Per carità, sono scenari; e con il motore del consumo sempre più concentrato in Asia. Però ne esce come modello di riferimento un plausibile quadro decennale di sostanziale stabilità della domanda su livelli leggermente superiori a quelli pre-Covid. La normalità per un po’ si allunga.

Un ritorno alla stabilità dei prezzi?
Il ritorno alla stabilità della domanda può implicare un ritorno alla stabilità dei prezzi? La domanda è figlia di equivoco. Se vi imbattete in una qualche rappresentazione grafica dell’andamento del prezzo dal 1972 ad oggi ve ne verrà l’immagine di un percorso di montagne russe, con brevissime pause di fiato tra uno sprofondo e l’altro. Dalla fine del controllo del cartello delle sette sorelle il prezzo del petrolio si è fatto, anche in ragione della ciclicità degli investimenti, intrinsecamente (assai) volatile. Che la situazione che verrà lo spinga a maggiore o minore volatilità dipenderà dall’evolvere di alcuni fattori, tra cui per tutti la politica di produzione che adotteranno i maggiori produttori e la velocità assunta dal processo di decarbonizzazione.

La strategia dei produttori
Cominciamo dai produttori. Il prezzo di un future oggi è più basso del prezzo del giorno. Il barile costa più oggi che domani (in gergo, siamo in backwardation). Il prezzo ha recuperato le posizioni pre-Covid prima che le stesse fossero recuperate dai consumi. Quando (aprile 2020) i consumi crollarono di colpo di un 30% i produttori OPEC e la Russia per difendere le proprie quote di mercato non rallentarono la produzione (anzi l’Arabia Saudita la aumentò) e riempirono di petrolio non consumato tutti i magazzini del mondo. Il petrolio prodotto che non si sapeva dove mettere si trasformò di fatto in un rifiuto da smaltire; donde il prezzo minimo (Brent) e quello negativo (WTI). In progresso di tempo, OPEC + si è dovuta acconciare a cercare di proteggere i prezzi anziché i volumi/quote di produzione; ripristinando così un qualche equilibrio tra domanda e offerta. L’ultimo taglio saudita ha probabilmente portato l’offerta marginalmente al di sotto della domanda, donde la progressiva diminuzione delle scorte accumulate a magazzino e anche il rimbalzo di prezzo.

Il mercato sembra però immaginare non duraturo l’attuale livello di restrizione produttiva e prefigura un aumento dell’offerta che non potrà che avere un qualche effetto di calmiere. Di qui la backwardation, e dunque il petrolio di domani venduto a prezzo superiore a quello del petrolio di oggi. L’andamento dei futures indicherebbe, per quel che vale, una stabilità a venire intorno ai 55 dollari. Ma le serie storiche e la precarietà dell’equilibrio di domanda e offerta ci fanno comunque immaginare che, qualunque prezzo si proietti, risulterà a posteriori giusto una media di discese e risalite. La volatilità, col prezzo del petrolio, è questione di DNA.

La decarbonizzazione
Poi c’è la variabile decarbonizzazione. Ovvero se la decarbonizzazione sarà o meno più veloce della produzione delle riserve già sviluppate. Due delle poche certezze che abbiamo sono che del petrolio avremo bisogno ancora a lungo; ma anche che la repressione politico-finanziaria dell’investimento fossile (dai fondi pensione che disinvestono dall’Oil&Gas alla sempre crescente ostilità politica e di opinione pubblica) porterà a una forte diminuzione se non quasi a un blocco degli investimenti in nuove iniziative. Insomma non si investirà più per sostituire le riserve che quotidianamente produciamo; e c’è il rischio, se non la certezza, che quelle che abbiamo pronte per la produzione potrebbero non bastare (poi c’è chi sostiene che buona parte delle riserve esistenti al crescere della decarbonizzazione vanno già ritenute stranded assets, nel senso che non verranno mai prodotte;  però a questi fini conteggia anche riserve scoperte ma non sviluppate, che non sarebbe cioè istantaneo mettere in produzione).

Le due certezze contrapposte sono la chiave di interpretazione di un nuovo fenomeno, il c.d. decoupling tra prezzo del petrolio e valore azionario delle società petrolifere. Il prezzo si è ripreso dallo sprofondo; i valori azionari no. Il petrolio serve e ha un mercato. Le società petrolifere sono invece percepite (almeno per il momento) comunque a fine ciclo; e per ritrovare credito si trovano a proclamare che si occuperanno sempre più di altro.

Torniamo alle velocità reciproche di decarbonizzazione e produzione. Al mondo ci sono già più riserve di quanto per programmi di decarbonizzazione ne dovremmo consumare. Insomma il petrolio abbonda. Però senza nuovi investimenti non è tutto immediatamente producibile. Lo scenario più ricorrente è nel senso della stabilità decennale dei consumi. La stabilità non implica però la sufficienza della capacità produttiva esistente. Senza nuovi investimenti è dunque possibile che si verifichi almeno temporaneamente un eccesso di domanda rispetto alle capacità dell’offerta; e, se succede seppur a consumi stabili o persino in diminuzione, dovrebbe comunque far schizzare il prezzo. Il prezzo che sale al ridursi dei consumi. Sono le bellezze dell’economia (del petrolio).

Girate lo scenario e rendete più veloce del caso base la sostituzione del petrolio (via, ad es., accelerazione della sostituzione dei motori a scoppio con motori elettrici). Il tempo della trasformazione definitiva di riserve in stranded assets si accorcia e il volume dello stranded si accresce. Presumibile corsa dei produttori a vendere il più possibile prima che il mercato (non il petrolio…) si esaurisca. Competizione sfrenata per la difesa/conquista di quote di mercato e conseguente sprofondo del prezzo. Segnalo ai fini di questo scenario che il costo di produzione più basso è quello saudita (e di qualche vicino); e che, se fossimo virtuosi nel decarbonizzare di qui al 2050, il saudita da solo potrebbe bastarci (il calcolo lo ha fatto l’Economist). Insomma in caso di “si salvi chi può” il saudita le sue riserve dovrebbe riuscire (sia pure a prezzi di saldo) a vendersele, e che stranded siano gli altri.

Due scenari estremi. Un picco e uno sprofondo di prezzo. E magari in sequenza, che prima c’è un temporaneo spike e poi ci si butta a vendere il vendibile. In corso di decarbonizzazione ancora qualche anno di volatilità probabilmente ci tocca.

Che poi se ci guardiamo bene la volatilità non è figlia di complotto; ma quasi giusto di domanda e di offerta.


(Tratto da:  https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/transizione-green-10-anni-di-volatilita-il-petrolio-29352)




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Provvedimento n.229 dell'8 maggio 2014 - pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 126 del 3 giugno 2014.

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http://www.eu/ita/archivio/Transizione-green-10-anni-di-volatilita-per-il-petrolio-di-Massimo-Nicolazzi-915-ITA.asp 2021-03-04 daily 0.5