Turkmenistan, si prospetta un autunno difficile (di Davide Cancarini)

Il 2016 sta assumendo sempre più le sembianze di annus horribilis per il Turkmenistan, gigante energetico centroasiatico che detiene oltre 17mila miliardi di metri cubi di gas naturale - le quarte riserve a livello globale - ma che deve fare i conti con un grave isolamento geografico e logistico che, attualmente, permette di esportare idrocarburi solo in direzione di Cina e Iran (la Russia ha posto termine ai suoi acquisti di metano turkmeno a inizio 2016).
Nel tentativo di stornare dalla sua figura qualsiasi potenziale responsabilità della crisi economica che sta attanagliando il paese (dovuta soprattutto al calo del prezzo del metano sul mercato internazionale), il Presidente-autocrate Gurbanguly Berdymukhammedov sta infatti portando avanti una strategia interna sempre più imprevedibile e di difficile lettura.
L’ultimo episodio in ordine di tempo ha riguardato, a metà luglio, la decisione improvvisa di abolire il Ministero per il Petrolio e il Gas Naturale – le cui funzioni sono passate nelle mani del Vice Primo Ministro Yashgeldy Kakaev, tra l’altro responsabile del progetto del gasdotto TAPI (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India) – e l’Agenzia Statale per la gestione degli idrocarburi, le cui competenze sono invece state divise tra le compagnie statali Turkmengaz e Turkmennebit. Non è chiaro quale sia l’obiettivo di tale mossa: da un lato, infatti, ammesso e non concesso che lo scopo ufficiale di migliorare la gestione del fondamentale comparto sia effettivamente perseguito, la decisione potrebbe essere legata alla volontà di garantire al gas naturale il massimo impegno in termini di risorse e strutture governative preposte alla sua gestione, soprattutto in un momento in cui aumentare le rotte d’esportazione a disposizione di Ashgabat sarebbe fondamentale.
La possibilità, inoltre, che siano più personalità della nomenklatura a occuparsi sostanzialmente dello stesso settore, risponde alla necessità propria del contesto clientelare e tribale turkmeno di garantire adeguata rappresentanza a tutti i membri dell’élite al potere, elemento di cui Berdymukhammedov ha sempre dimostrato di essere ben cosciente.
Un altro fattore è da tenere però in considerazione, ed è legato alla necessità per il Presidente di ridurre i costi della macchina statale, che, come d’altronde quasi tutta l’attività economica turkmena, trova quasi esclusivo sostentamento dalla vendita di gas naturale. A confermare tale scenario vi è la notizia secondo la quale (avere informazioni certe relativamente alla realtà turkmena è sempre complesso) gli insegnanti della città di Turkmenabat, nella provincia di Lebap, non avrebbero ricevuto né la retribuzione di giugno e luglio né, tanto meno, quella legata alle ferie annuali. Una situazione simile è stata registrata dalla maggior parte delle organizzazioni e delle agenzie del velayat, così come è stato riportato come i lavoratori del settore gasifero non abbiano ricevuto gli stipendi o siano stati costretti a prendere un congedo non retribuito.
Se si pensa che nel paese l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, dovuto all'incertezza economica e alla decisione di ridurre notevolmente la possibilità di cambiare manat con dollari, è ormai una costante, che alcuni servizi pubblici prima forniti gratuitamente ai cittadini turkmeni sono stati aboliti, che il confine tra il Turkmenistan e l’Afghanistan è sempre più instabile e che, infine, dei faraonici progetti energetici promessi o “ufficialmente” avviati (come il TAPI) vengono diffuse solo poche, e difficilmente credibili, informazioni, si capisce come questo rischia di essere un anno veramente complicato per i cittadini turkmeni. Essi, infatti, si trovano schiacciati tra bizzarrie, irrazionalità e autoritarismo del leader al potere, una situazione economica che potrebbe rendere difficile persino l’accesso ai beni primari e la mera sopravvivenza e un contesto internazionale che li vede sempre più isolati.
Pare che il destino del Turkmenistan sia, al momento, saldamente nelle mani della Cina, protagonista delle dinamiche strategiche che interessano l’Asia Centrale e potenzialmente in grado, con il suo schiacciante peso in termini economici, di influenzare in futuro anche gli scenari politici interni di un paese così dipendente dalle revenues che fanno capo a Pechino.